Colpevoli di parlare. E di provocare biasimo. Colpevoli di pensare. Premessa. Sono anni che mi arrabbio con il giornalista Fabio Buonofiglio. Gli ripeto all’infinito che “è tutto inutile, che tanto le cose non cambiano”. Gli consiglio di iniziare a pensare alle cosette sue, di smetterla di fare il Masaniello.
“Ami scrivere? Fallo senza più rischiare, ché tanto non ti danno medaglie”. Anzi. Il fatto. Corigliano vive l’ennesimo problema idrico e il “nostro” sceglie la strada della provocazione dura. Censura chi governa la città jonica e ironizza su un moto popolare. Chiunque sorriderebbe, conoscendo la Persona prima che l’Autore: chi può immaginarlo un Buonofiglio alias “Che”? E invece… querela. Il risultato. Si va a processo. Come in un film di Sorrentino… quando l’assurdo è genio creativo per farci riflettere sulla realtà italiota. Ma è fantasia, è fiction. Qui in Calafrica no, è “regola”. Grottesco che si fa diritto. Con tanto di pubblicazione di atti giudiziari a riprova della propria verginità amministrativa. Il termine. “Provocazione: dal latino provocare, composto da pro, avanti, + vocare, chiamare, propriamente chiamare avanti, fuori”. Nel ‘900 la “cosa” assume un connotato artistico, pure nel dibattito politico: produce una “destabilizzazione del senso comune, un’uscita dagli schemi di pensiero condivisi”. Le sfida. Svegliare le coscienze è Arte. Provare che esista Bellezza pure in ere buie, o in luoghi orribili, è Arte. Trascinarci fuori dagli schemi e dalle omertà compiacenti, è Arte. Una malattia grave non si cura con acqua e zucchero: la Parola deve essere forte, furente. Il resto lo fa la Cultura di chi ascolta/legge. La sconfitta. Il guaio è che non basta una laurea, o un libro, o un aforisma, a “fare Cultura”. Né il suffragio popolare premia sempre il valore culturale di chi si sfida alle urne. Il guaio è che “provocare” produce ilarità e ai potenti di ogni epoca tutto fa un baffo, salvo l’eco d’una risata a proprio carico. E allora querele. Pensare, però, resta un fantastico modo per digerire tutto. Esige tuttavia tinte forti, termini radicali. E forse tanti giudici non frequentano musei o biblioteche. Al pari di troppi “potenti” del nostro Sud bello e disperato.