Vincenzo Sapia era di Mirto Crosia, aveva 30 anni appena, pesava 130 chili ed era da tempo in cura presso il Centro di salute mentale di Rossano. Era affetto da disturbi schizo-affettivi. Periodicamente soffriva d’allucinazioni, manie di persecuzione e deliri, prima dell’insorgere della fase depressiva. Il 24 maggio del 2014 stava cercando di forzare una porta nel centro del suo paese, mentre cercava il suo cane, che aveva smarrito.

Girovagava sempre con quell’animale che amava, e credeva, in quella notte di fine maggio, che fosse proprio dentro la casa di cui forzò la porta d’ingresso. Intervennero i carabinieri della Compagnia di Rossano (nella foto, la sede). Gli chiesero i documenti. Lui si spogliò di fronte ai militari per dimostrare loro che non li avesse addosso. Ne scoppiò una colluttazione e pare che Sapia, preso dal panico, abbia sferrato ai carabinieri qualche pugno prima d’essere bloccato. Preso per il collo, avvinghiato da dietro. Pure il sindaco del paese, passato da lì, provò a calmarlo. Il giovane però riuscì a scappare. Pochi metri. La sua corsa, infatti, finì sull’asfalto per via dello sgambetto d’un carabiniere. Trattenuto per il collo ed i capelli, bloccato dal torace e dalle gambe. Prima un ginocchio e poi un piede sulla schiena. Riuscirono ad ammanettarlo, benché soltanto per una mano. Sapia continuava ad opporre resistenza. Venne allertato, invano, il 118. Un medico che passava da lì per caso dichiarò il decesso del trentenne. I magistrati inquirenti, in sede di conclusione delle indagini preliminari, scrissero che la morte sarebbe stata determinata «da alterazioni elettriche al cuore in un soggetto con il cuore messo male da coronosclerosi, coagulopatia, ipertrofia cardiaca, trombosi coronarica e minato dagli psicofarmaci». Tutto ciò per escludere l’asfissia da manovre violente. Insomma, un infarto, una morte improvvisa. Con relativa richiesta d’archiviazione del caso da parte della Procura di Castrovillari.

Purtuttavia, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale, Margherita Letizia Benigno, non s’adeguò alla richiesta del pubblico ministero: i carabinieri non rispettarono le regole nel trattamento d’una persona in stato di disagio psichico. «Diversi sono gli aspetti meritevoli di approfondimento che non consentono un pacificante accoglimento della richiesta di archiviazione». C’era da chiarire se l’azione fosse avvenuta secondo quei protocolli operativi che prevedono comportamenti prudenziali nei casi d’arresto e fermo di persone in condizioni di disagio psichico. Tra tali regole, quella di «evitare di invadere lo spazio della persona in stato di agitazione mantenendosi a una distanza utile, stabilire un dialogo, dimostrare di comprendere lo stato d’animo dell’interlocutore, evitando di ingenerare sensi di colpa». Ed ancora: «Evitare l’immobilizzazione a terra e in posizione prona, trattenerlo possibilmente in piedi; sia l’arresto che l’eventuale ricovero dovranno avvenire in posizione seduta o sdraiata su un fianco evitando in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica».

I tre carabinieri indagati furono perciò rinviati a giudizio. Il processo è in corso da circa un anno dinanzi ai giudici del Tribunale castrovillarese. Martedì prossimo le parti torneranno in aula. La famiglia Sapia è costituita parte civile ed è rappresentata dagli avvocati Fabio Anselmo ed Alessandra Pisa del foro di Ferrara. 

 

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