
Il 24 luglio dello scorso anno i giudici della Corte d’Assise d’appello di Catanzaro confermarono le due condanne all’ergastolo già inflitte un anno e mezzo prima per la strage di Cassano Jonio del 16 gennaio 2014.
Tre corpi bruciati in un’auto dopo essere stati sparati
Quella in cui morì e fu bruciato pure il corpicino del piccolo Nicola “Cocò” Campolongo d’appena 3 anni, sparato e carbonizzato all’interno dell’abitacolo d’una Fiat Punto assieme al nonno, il 52enne cassanese Giuseppe “Peppe” Iannicelli, e alla sua compagna, la 27enne di nazionalità marocchina Ibtissam Touss.
Un eccidio di ‘ndrangheta che si consumò nella rurale e sperduta contrada Fiego, dove al trafficante di droga Peppe Iannicelli era stato dato un appuntamento-trappola.

Il processo agli esecutori condannati all’ergastolo
Esecutori materiali della strage, secondo i giudici, furono il 42enne Cosimo Donato detto “Topo” e il 43enne Faustino Campilongo inteso come “Panzetta”, entrambi trafficanti di droga residenti nel vicino Comune albanofono di Firmo, ed entrambi ovviamente in carcere.
Un lungo processo, caratterizzato pure dalle testimonianze di numerosi ex ‘ndranghetisti oggi collaboratori di giustizia, oltre che dall’ascolto delle intercettazioni telefoniche eseguite dai carabinieri del Reparto operativo speciale di Catanzaro e del Reparto operativo del Comando provinciale di Cosenza nel corso delle indagini.

Dalle ore successive al delitto, quando alcuni familiari di Peppe Iannicelli incontrarono Donato e Campilongo che puzzavano di benzina. Fino ai dialoghi in lingua arbëreshë intercettati nel corso della detenzione di Donato. Dai messaggi su Messanger e WhatsApp intercettati dagl’investigatori alle dichiarazioni dei vari “pentiti” di ‘ndrangheta, passando per le contraddittorie testimonianze di Sonia Di Monte, ex compagna del “pentito” Michele Bloise e dello stesso Donato.
I due condannati, secondo la ricostruzione dei fatti, avrebbero bruciato la macchina e i corpi delle tre vittime.
I troppi misteri del “triplice” movente
La strage avrebbe più d’un movente: la gestione del traffico e dello spaccio della droga, il tentativo di Peppe Iannicelli di tenere “sotto scacco” Donato e Campilongo e quello di prendere le distanze dal locale di ‘ndrangheta degli zingari cassanesi, magari collaborando con la giustizia.
Se Donato e Campilongo abbiano materialmente ucciso i tre o se siano stati realmente loro gli organizzatori della strage, questo non è stato chiarito né dal dibattimento di primo grado celebratosi in Corte d’Assise a Cosenza né dal processo d’appello.
Mai fu trovata l’arma del delitto né alcuni dettagli che avrebbero potuto allargare il cerchio dei responsabili, come lo smartphone della ragazza marocchina.

La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata dal procuratore Nicola Gratteri sta ancora e tuttora lavorando al secondo livello dell’inchiesta.
Il Papa a Cassano e la scomunica agli ‘ndranghetisti
La morte del piccolo Cocò, sei mesi dopo la strage, spinse Papa Francesco a visitare Cassano. Il Pontefice, il 21 giugno del 2014, in un memorabile discorso pronunciato a Sibari davanti a migliaia e migliaia di persone, ha scomunicato tutti i mafiosi.

Le dichiarazioni dei “pentiti” e il neo “pentito” Acri
Uno dei “pentiti” sentiti al processo fu il 54enne cassanese Pasquale Perciaccante detto “Cataruozzolo”, già “azionista” del locale degli zingari e collaboratore di giustizia dal 2007. Perciaccante in aula indicò proprio i suoi antichi “compari” quali mandanti della strage:
«Sono stati gli zingari. Volevano ammazzare Iannicelli da tempo… Per loro, Peppe Iannicelli era un infame».
S’era infatti sparsa la voce che Peppe Iannicelli volesse collaborare con la Procura antimafia di Catanzaro.
Perciaccante ha raccontato che il superboss degli zingari Franco Abbruzzese alias “Dentuzzo” e Filippo Solimando avevano più volte intimidito Iannicelli al quale rimproveravano di non essere in grado di controllare lo spaccio di droga a Cassano. Il collaborante ha riportato un episodio in cui Peppe Iannicelli lo chiamò riferendogli che a casa sua erano arrivati “Dentuzzo”, Nicola Acri e Filippo Solimando armati di kalashnikov. Il capo degli zingari gli avrebbe chiesto d’uccidere Giuseppe Romeo, minacciandolo che altrimenti lo stesso Iannicelli sarebbe stato ucciso, e gli avrebbe inoltre detto che avrebbe ucciso Giambattista Atene (omicidio consumato a Sibari il 1° luglio del 1999, ndr).
«Iannicelli non potè che accettare» – ha detto – «ma quando si rese conto di non essere in grado di uccidere Romeo, chiese aiuto a me che, per come ho già dichiarato, unitamente agli Abbruzzese ho partecipato effettivamente all’omicidio di Romeo (Cassano Jonio, 15 luglio 1999, ndr).
«Sempre in quel periodo, ho potuto constatare che Filippo Solimando, così come ”Dentuzzo”, era latitante, e che i due si nascondevano insieme».

Il fratello di Peppe Iannicelli, Battista, ha invece riferito che Luigi Abbruzzese convocava continuamente il fratello a Timpone Rosso (il quartier generale degli zingari alla frazione Lauropoli di Cassano Jonio, ndr) per contestargli di rifornirsi di stupefacente da canali autonomi.
Ovviamente si tratta di fatti datati rispetto alla strage del gennaio 2014, ma offrono una chiave interpretativa laddove gli esatti contorni non sono per nulla chiari.
Dei protagonisti dei fatti narrati dalla gola profonda di “Cataruozzolo”, Franco Abbruzzese “Dentuzzo” è al carcere duro del 41-bis dal luglio del 2009, Nicola Acri dall’ottobre 2010, Filippo Solimando dal febbraio 2015.
Ora che pure Acri “Occhi di ghiaccio” ha saltato il fosso, potrebbe contribuire a meglio dipanare i pur datati misteri che potrebbero essere alla base d’un eccidio in cui la ‘ndrangheta non ha risparmiato neppure la vita d’un bambino. direttore@altrepagine.it
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