di Domenico A. Cassiano

Riceviamo, e molto volentieri pubblichiamo, un graditissimo, preziosissimo regalo che stamane ci ha fatto pervenire al giornale l’avvocato Domenico Antonio Cassiano, Uomo di Diritto e Uomo d’Istruzione al contempo, nostro Professore di Storia e Filosofia nei nostri anni al Liceo Classico di Corigliano nonché nostro Preside facente funzioni quando venne a mancare il Preside Battista Tramonte.

Il nostro legame col Professore Cassiano negli anni del post-maturità e in quelli ancora successivi s’è rafforzato, sulla scorta di tanti piacevoli ricordi che a lui ci uniscono, dei tanti insegnamenti di vita da lui impartitici, e, soprattutto, della sua vasta produzione culturale costituita da numerosi libri, articoli ed altri scritti.

L’autore Domenico Antonio Cassiano

È un nostro assiduo lettore, lo diciamo con sommessa ritrosia agli altri lettori di AltrePagine, e per quelli più adulti Domenico Antonio Cassiano non ha certo bisogno di presentazione alcuna da parte nostra.

Ai più giovani diciamo che il Professore è tra i più fini ed importanti intellettuali tuttora attivi della sua Arbëria, del comprensorio della Sibaritide-Pollino, della Calabria intera, degno rappresentante della Cultura del nostro Sud. Buona lettura. (Fabio Buonofiglio) 

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Prima di conoscerlo di persona, l’avevo conosciuto attraverso alcune sue opere: disegni e pitture. La mia attenzione fu particolarmente attratta da un dipinto, che ebbi modo di osservare in una casa di Corigliano Calabro. Vi era raffigurato un uomo che, in una landa deserta, si ergeva verso il cielo con i pugni chiusi, che evidentemente volevano significare protesta e denunciavano una certa condizione umana – anzi, subumana – lanciando una sfida per il suo superamento e manifestando l’impegno di lotta.

Poi, conobbi Gabriele e ne divenni amico. Compresi, allora, anche dopo avere visto altri suoi quadri e disegni, che quel dipinto era la raffigurazione del suo ideale di artista e di giovane intellettuale, socialmente e politicamente impegnato: consapevolezza delle ingiustizie  e delle storture sociali, volontà di lottare per il loro superamento in una visione della realtà che necessariamente deve fluire verso una evoluzione progressiva. 

Opera di Meligeni

Così, prima che un politico e dirigente di partito, Gabriele, per me, era un artista, un poeta. Concetto che ribadii, davanti al tribunale, in sua presenza, in una delle tante occasioni in cui ebbi a difenderlo dall’ennesima, infondata accusa di avere commesso chissà che grave reato, dimostratasi risibile, del tutto inconsistente e conclusasi con l’assoluzione. Era una delle tante volte che lo difendevo da accuse – sempre irrilevanti e dalle quali fu sempre assolto – che gli venivano mosse, a mio parere strumentalmente, per il semplice ed unico motivo che era Sindaco di Corigliano con un’amministrazione di sinistra, che naturalmente non prometteva nulla di buono per gli speculatori edilizi, il cui unico fine era il continuare nella manomissione e nello scempio del territorio, unicamente perseguendo la dura legge del profitto.

Opera di Meligeni/2

Ma – prima di essere politico e dirigente di partito – per me, Egli era un artista, che trovava la sua fonte di ispirazione nella realtà che riviveva liricamente e riportava, trasfigurandola, nei suoi quadri e nei suoi disegni. Corigliano – che , cresceva caoticamente e la cui pianura si rigonfiava a dismisura per il riversarsi della popolazione proveniente dai paesi della collina e della montagna –  era un osservatorio del processo di trasformazione che, in genere, avveniva nel Mezzogiorno e nella Calabria, in particolare. Anzi, Corigliano era come la sintesi del Sud sia sotto il profilo sociale che economico, politico e culturale. Vi era rappresentata tutta la tematica meridionale: problemi del territorio (montagna, collina, pianura), dell’agricoltura, industria, artigianato, del turismo, archeologia, dell’occupazione e dell’emigrazione ed anche della devianza sociale che incominciava a manifestarsi in forme particolarmente preoccupanti. 

Opera di Meligeni/3

Questo era il mondo nel quale era cresciuto e nel quale era immerso e che rivive nella sua espressione artistica, la quale contestualmente è anche manifestazione del suo iter autobiografico, conteso fra utopia e realismo, fra il gramsciano pessimismo dell’intelligenza dell’intellettuale e l’ottimismo della volontà del dirigente politico, impegnato nella prassi nell’opera di risanamento e di garanzia del bene collettivo, pur nello scontro aspro con gli interessi ed i privilegi costituiti. La tormentata sua vicenda politica di dirigente di partito, di consigliere comunale e di sindaco attesta questa dialettica fra visione ideale e realtà concreta, fra il mondo come si vorrebbe che fosse e quello che realmente esso è. 

Il compianto Luigi De Luca colse acutamente i segni di tale antinomia, profondamente sofferta dal politico Meligeni e che costituisce il “motivo dominante”, particolarmente in certi disegni, nei quali, “da una parte, è il mito dell’abbondanza, l’abbondanza del mondo dei campi, espressione paradigmatica della palingenesi del popolo lavoratore. Ne sono ricorrenti ed eloquenti documenti: frutti, fiori, piante, grano, olive, campi coltivati in bell’ordine, ciotole e ceste ricolme; e, insieme con questi e tanti altri oggetti familiari, le figure umane, specie quelle femminili, così rilevate, del mondo contadino. Da una parte, quindi, tutto questo, che è uno dei due termini, onnipresenti, della collisione…questo termine significa anche purezza, onestà, pulizia morale; trionfo, insomma, della nobiltà del lavoro.

Dall’altra parte, altri simboli e personaggi, pure ossessivi, rappresentano il termine opposto, il sistema: la corruzione, l’arroganza, il servilismo, la mafia…per esempio, la sedia del Palazzo, la presenza ricorrente della piovra e di altre figure anguiformi, cassetti e carte e pratiche d’ufficio, il denaro, i personaggi del potere (la viscida e spenta immagine dell’impiegato-servo del sistema; il boss mafioso a cavallo; il clero, defilato, ma onnipresente; ecc.)”.

Primo piano di profilo di Meligeni

Questo era il mondo, la realtà, in cui Meligeni era nato, era cresciuto ed aveva sperimentato di persona l’asprezza del vivere quotidiano dei ceti popolari ed in genere delle minores gentes. Corigliano era il suo microcosmo e, nello stesso tempo, significativamente rappresentativo del macrocosmo meridionale. Nel variegato microcosmo coriglianese si riflettevano puntualmente le aspettative, le inquietudini, le lotte sociali, i contrapposti blocchi sociali con i connessi interessi e le differenti culture ed il crogiuolo dei conflitti di classe. In questa situazione reale ed oggettiva, la sua scelta di artista lo portava naturalmente a privilegiare gli ideali di rinnovamento e di rottura antisistema, allora rappresentati e portati avanti dal movimento popolare. Dall’arte e dalla cultura all’impegno politico il passaggio era assai breve ed, in qualche modo, conseguenziale, perché Egli aveva già maturato la convinzione che il ciclo storico della classe al potere, segnato dalla corruzione e dall’arroganza, era finito. Toccava, ormai, ad altri gruppi sociali la gestione del potere. Egli vedeva nel proletariato la forza antagonista e protagonista, che aveva il compito di creare le basi per una società diversa, a misura d’uomo, dando attuazione concreta ai principii fondamentali, sanciti solennemente nella Carta Costituzionale.

Meligeni tra la sua gente di Corigliano

Forse era una visione utopica perché non sempre la realtà corrisponde all’idealità vagheggiata; epperò, sarà opportuno sottolinearlo, l’artista, ma anche il politico, ma la nostra stessa vita si alimentano di passioni, di sentimenti e di sogni. Perché abbiamo bisogno di pensare e di vivere in previsione di una città migliore. Per tale motivo, oggi da più parti si riconosce che bisogna coltivare anche risorse come “creatività, curiosità e vitalità” ed intervenire sul sociale con “un vasto programma” di “fondamentali riferimenti culturali: dalla vitalità al sogno ed all’immaginazione degli autori classici; “dalle passioni e dall’enfasi sulla crescita della conoscenza nella società di David Hume al “Candido” di Voltaire, all’importanza del divenire sull’essere di intellettuali come Montaigne, Ibsen, Kierkegaard fino ad un Verdi e un Mascagni”. 

L’arte è naturalmente politica e non può non esserlo. L’artista non vive isolato in una torre d’avorio, staccato ed avulso dal fluire della realtà empirica. Al contrario, egli vive immerso nella polis e, per conseguenza, non può non avvertirne le interne antinomie che la agitano e l’attraversano, per poi esplicitarle in forme particolari ed in linguaggi probabilmente non sempre accessibili, che hanno una loro specifica chiave di lettura, che va interpretata e compresa. 

Il sorriso del popolo

Meligeni, condotto dai suoi ideali derivanti dalla sua passione civica alla prassi politica, fa in seguito la sua scelta ideologica al fine di realizzare e porre in atto la sua scelta morale. Voglio dire che il contenuto della sua opera artistica non è necessitato e determinato dal suo essere militante politico. Avviene, invece, il contrario: la militanza politica è conseguente alla sua maturazione artistica.

Nelle sue opere, il risalto dato alle donne ed agli uomini di Corigliano che simboleggiano le lotte, le fatiche, le speranze, le aspettative del popolo meridionale, si colora, a volte, – è vero – anche dell’amaro sapore della sconfitta, ma non si annulla nel fondo cupo della disperazione. Perché vi si intravede sempre la speranza di risorgere per continuare a lottare. E la speranza è nella lotta. Anche Gabriele – e qui voglio sottolineare un suo dato biografico – era un lottatore, un lottatore paziente, che riusciva a riprendere sempre il filo della sua azione, nonostante le immancabili ricadute e le non indifferenti incomprensioni nella sua stessa parte politica. 

Ciò perché Egli – per dirla con i versi del medico-poeta di San Giorgio Albanese, il compianto Aldo Dramis, avvertiva come

…la nostra coscienza

Non può essere appagata,

le sconfitte abbiamo

inchiodato

come canestri

sui muri miserabili…

e altre lotte 

ci attendono

al primo lampo

di un nuovo giorno. 

***

L’impegno politico di Meligeni si esplicò in un momento di gravi difficoltà sia di ordine generale che all’interno del suo stesso partito, oltre che ovviamente in quelle oggettive riscontrabili nell’ambito territoriale comunale ed ascrivibili alla complessità delle sue problematiche.

Occorreva, infatti, riprendere i rami dispersi del partito, procedere alla sua riorganizzazione per raggiungere un misurato equilibrio fra le sue interne componenti al fine di preparare ed attrezzare un organismo per dare spazio a forze nuove e per ritessere le necessarie alleanze.

Una delle tante manifestazioni organizzate da Meligeni

Il nostro Paese – com’è assai noto – attraversava, in quel periodo, una delicata fase di transizione e stava per mutare volto. Si aprivano i grandi cicli emigratori, che sposteranno al Nord ed all’estero milioni di lavoratori con le loro famiglie, determinando il cosiddetto boom economico degli anni sessanta del secolo scorso con la connessa trasformazione neo-capitalistica industriale. Si svuotavano gradualmente i paesi di collina e di montagna; si rigonfiavano enormemente i paesi di pianura, creando problemi di assestamento del territorio, di nuovi bisogni da soddisfare ed una assai articolata complessità sociale, prima del tutto sconosciuta. 

A tanto aggiungasi che il movimento popolare, particolarmente contadino, che, qualche anno prima, con l’epopea della occupazione generalizzata delle terre incolte e dell’assalto all’assestamento agrario feudale, aveva scritto una splendida pagina di storia del Mezzogiorno, dimostrando nei fatti di essere l’unica vera forza di rinnovamento politico e sociale, era ora in riflusso. E, pertanto, questa nuova fase storica e politica richiedeva un gruppo dirigente estremamente attento e capace di governare e guidare le nuove lotte politiche e sindacali, che man mano si profilavano e prendevano forma e sostanza.

Gabriele, ancora giovane studente universitario, si inserisce in tale crogiuolo di forze in movimento acquisendo la consapevolezza della necessità della costituzione di un modello nuovo di partito che avrebbe dovuto fare del movimento popolare e progressista il protagonista della vita politica coriglianese e del circondario. Ed, in effetti, con l’ausilio disinteressato di tanti altri giovani intellettuali, ma anche di artigiani, contadini e di anziani – che non è esagerato definire come tanti cavalieri degli ideali socialisti – Egli diede vita e forza e coesione ad un nuovo e più idoneo gruppo dirigente battagliero ed attrezzato a dare un governo nuovo alla Città.

Piazza del Popolo e Via San Francesco gremite di gente per ascoltare il comizio di Meligeni

La nuova amministrazione cittadina aveva – come i successivi sviluppi dimostrarono – una duplice valenza.

Essa rappresentava ed era una rottura radicale con i gruppi economicamente e socialmente fino allora dominanti del notabilato agrario e dei gruppi sociali ad esso in vario modo collegati. Non si può sottacere che la popolazione di Corigliano aveva dovuto sopportare, già all’indomani dell’unità nazionale, una grave ed ingiusta discriminazione nella ripartizione delle terre ex feudali, delle quali si erano impadronite alcune poche famiglie a danno della collettività, come ha riconosciuto il Commissario prefettizio-ripartitore nella sua Relazione sulla questione dei demani comunali di Corigliano Calabro, il quale ha esplicitamente evidenziato come “la grande proprietà sia in troppo diseguali sproporzioni colla piccola coltura e colla piccola proprietà; perché a Corigliano dai grandi latifondi…si discende con una scala troppo rapida, senza una lunga serie di quelle gradazioni intermedie…ai 1.575 capi di famiglia…che si trovano ad introitare meno di 250 lire annue in tutto, compreso il lavoro delle proprie braccia…”

La grande proprietà fondiaria, frazionata con le leggi eversive della feudalità onde essere assegnata ai cittadini senza terra, a Corigliano – ma non solo a Corigliano – si ricompose in favore di poche famiglie, già economicamente potenti. 

Sottolineava il Ripartitore prefettizio le condizioni di povertà in cui versava la popolazione coriglianese: delle 2.763 famiglie, ben 1.800 non possedevano terreni e 1.205 nuclei familiari erano assolutamente nullatenenti. Nessuno dei benefici della legge eversiva della feudalità aveva toccato i cittadini coriglianesi; anzi, in qualche modo, la loro condizione era peggiorata dal momento che delle terre pubbliche si erano appropriate alcune famiglie altolocate, che, in più, ora erano anche egemoni nel potere locale. Sicchè, di fatto, la popolazione risultava fondamentalmente composta di due sole classi e, cioè, come osservava Vincenzo Padula in quel tempo, “di uomini che succiano gli uomini e di uomini che succiano la terra”, ossia, per uscire dalla metafora, di un gruppo assai ristretto di privilegiati che viveva sulle fatiche della stragrande maggioranza della popolazione.

I giovani esultano per la vittoria di Meligeni

Ho voluto ricordare questa amara pagina della storia di Corigliano, relativamente recente, perché essa – a mio modo di vedere – costituisce il presupposto ovvero il punto di partenza ed il filo conduttore della storia sociale e politica coriglianese, che non si è evoluta secondo una progressiva prassi liberale e democratica, facendosi carico dei problemi economici e politici derivanti dalla trasformazione del sottoproletariato urbano e della plebe delle campagne, ma ha mantenuto, invece, uno statu quo caratterizzato di fatto come una oligarchia di notabili, scontando, poi, in prosieguo, tale sostanziale arretratezza col fascismo, nel quale confluirono i ceti borghesi e nobiliari, trovando protezione e potere sotto le ali del littorio.

Meligeni ed il gruppo di altri giovani intellettuali progressisti si ponevano naturalmente su un’altra lunghezza d’onda. Essi necessariamente erano destinati a scontrarsi con i detentori del potere effettivo in loco che, questa volta, non erano più i rappresentanti del notabilato agrario perché avevano mutato volto, ma, nella sostanza, si ispiravano alla dura legge del profitto privato, saccheggiando il territorio e facendo uso del potere pubblico in modo sconsiderato, come, del resto, è in genere avvenuto nella nostra Calabria e nel Mezzogiorno.

Tale operazione di rottura del tradizionale assetto politico-sociale ed amministrativo fu anche uno scontro culturale perché coinvolgeva visioni differenti ed opposte. Anche  nel recente passato, al tempo delle lotte agrarie, quando masse di contadini calabresi, dall’altopiano silano alla pianura di Sibari, dalla valle del Crati al basso e alto Jonio, occupavano simbolicamente i latifondi ex-feudali, usurpati dai baroni e dagli agrari, si scatenò contro di esse la violenza della reazione privata e poliziesca, con conseguenze anche luttuose a Melissa, Calabricata, Petilia Policastro, Isola Caporizzuto, dove, sotto il piombo della polizia, lasciarono la vita uomini e donne dei ceti popolari. 

Così avvenne in Corigliano nel periodo dell’Amministrazione Comunale con Sindaco Meligeni. Essa mise in crisi complessivamente il ceto borghese, i gruppi economicamente elevati, frange di piccola e media borghesia e parte del clero. Tutti costoro, con evidente approssimativa analisi, vi videro, anziché  il tentativo di dare un volto moderno e più confacente e più aderente al soddisfacimento di bisogni collettivi improcrastinabili, niente di meno che l’irrompere della rivoluzione dei rossi. Un corpo estraneo, un bubbone improvvisamente spuntato nel corpo sociale da estirpare, un nemico da eliminare. Tutta questa gente era ancora ferma a passate ed ormai tramontate ideologie, del tutto insostenibili ed inammissibili alla luce dei principii della Costituzione della Repubblica.

*****

Da qui il ricorso a strumenti di lotta politica, inconciliabili con la normale dialettica e col confronto, anche aspro, che caratterizzano il metodo democratico. Denunzie ed esposti vari, per lo più, anonimi furono inoltrati alla magistratura ed all’autorità di polizia nei confronti di Meligeni e degli altri Amministratori. 

Non ricordo più quante volte io ebbi ad assisterli in interrogatori. Si susseguivano anche i sequestri di atti e deliberazioni adottate dagli organi comunali elettivi. E si trattava sempre di inchieste giudiziarie, basate su un pugno di vento, come, in effetti, sancirono le successive sentenze dei giudici, che sempre assolsero Meligeni e gli altri componenti della Giunta Municipale ed, in qualche caso, i Consiglieri comunali, o per non avere commesso il fatto o perché il fatto non costituiva reato. Il che la dice lunga sulle motivazioni da cui tali inchieste traevano origine.

Non è il caso di soffermarsi su tali miserevoli vicende facendo del facile moralismo. Ormai si tratta di atti e di fatti consegnati alla cronaca, se non proprio alla storia di un territorio che, tra gli anni ’70 e gli anni ’80 dello scorso secolo, ha vissuto una vicenda assai tormentata, scaturita da un convulso e contraddittorio processo di urbanizzazione, non sempre espressione di una modernizzazione in atto; dallo strepitoso aumento della popolazione che poneva nuove problematiche socio-politiche, mai prima sperimentate; dalla mutata articolazione della geografia umana ed economica con l’insorgenza di nuovi gruppi sociali, costretti non raramente a subire un destino di vera e propria marginalizzazione; ed anche dalle contraddizioni e dalle ambiguità delle forze politiche, non immuni da carenze nella scelta delle rappresentanze. 

Il sindaco e la sua motocicletta

Voglio qui affermare che lo stesso carattere delle intervenute trasformazioni sociali e, conseguentemente, della lotta politica, era destinato o, meglio, portato ad acuire i contrasti, facendoli sfociare in violenze verbali ed in comportamenti, incompatibili col dispiegarsi della dialettica politica. A tale proposito, va anche ricordato – come ha sottolineato Gaetano Cingari nella sua Storia della Calabria – che “la conversione prima e dopo il 1950 di alcuni grandi proprietari ex-liberali o ex-monarchici nella Dc acuiva la lotta, polarizzandola e caricandola anche di veleni localistici”. 

Furono proprio questi “veleni localistici” che determinarono la pioggia di aggressioni e di denunce nei confronti degli amministratori di sinistra ed, in particolare, di Gabriele Meligeni, contro il quale furono scaricati, se non tutti, almeno buona parte dei delitti contro la pubblica amministrazione: dall’omissione di atti d’ufficio all’abuso, al peculato, alla malversazione, al vilipendio delle istituzioni, alla violenza o minaccia contro un pubblico ufficiale. Tutti reati gravissimi che costrinsero Gabriele Meligeni a difendersi, davanti al Tribunale di Rossano, il più delle volte da solo ed altre volte insieme ai componenti della Giunta Municipale.

Dobbiamo ammettere che la cultura della sinistra in generale e del partito comunista in particolare, se, da una parte, con la riscoperta di Gramsci e del nazional-popolare, nutriva il suo impegno politico di temi e problemi nuovi ed era, altresì, attenta alle problematiche, imposte dallo sviluppo neocapitalistico con la sua impetuosa irruzione nel Norditalia e con i risvolti immancabili anche nel Mezzogiorno, tuttavia, dall’altra parte, vi esercitava – com’era naturale –  anche un suo peso il mito delle recenti lotte contadine. Era, del resto, inevitabile che venisse tenuto in vita e non fosse emarginato il valore del mito di Melissa che indubbiamente aveva una sua propria valenza operativa. 

Il Meligeni-pensiero disegnato da Meligeni

Nel caso di Meligeni, lo attesta la sua arte pittorica, i suoi disegni, ispirantisi alla realtà contadina. Tale tematica era ricca di fermenti ed all’interno della Regione aveva prodotto opere considerevoli nel campo della letteratura. Essa aveva, però, un limite ed un risvolto negativi dal momento che poteva sfociare nel localismo e nel populismo contadinesco con la conseguenza di tenere lontana l’analisi dalla reale ed oggettiva situazione delle campagne e dei rapporti agrari in trasformazione, a cui si legava naturalmente una nuova dialettica, sociale e politica, diversa da quella pregressa.

Ma il nostro Meligeni, nel suo laboratorio di Corigliano e nel suo osservatorio, che era il Consiglio Comunale che rifletteva una particolare e magmatica realtà sociale, da cui era possibile sceverare particolari aspetti e specifici contrappunti dialettici, non era certamente fermo e passivo al mito di Melissa. I simboli ossessivi che ricorrono nei suoi disegni, ( la piovra, il boss mafioso a cavallo, la sedia del Palazzo, i personaggi del potere, le figure anguiformi, un certo clero ambiguo e conformista, l’impiegato asservito al potente di turno, ecc.)  stanno ad evidenziare che aveva intuito e compreso – come pochi altri in quel tempo – che Corigliano, come anche la Calabria, si trovavano nel limbo tra sviluppo e sottosviluppo  e che, in tale contesto, vi proliferava e si ingrandiva, non sufficientemente contrastato o nient’affatto contrastato, il germe negativo e mortifero della mafia e della criminalità organizzata, la quale, anche a Corigliano, nei primi anni ’80 del secolo scorso, incominciava ad affacciarsi pericolosamente e che costituiva un ostacolo oggettivo al libero dispiegarsi delle attività economiche e che, contestualmente, avrebbe potuto inquinare le Istituzioni pubbliche.

Cosa che, in prosieguo, si è puntualmente verificata, come è a tutti notorio. Meligeni – allora non creduto o, addirittura, irriso – aveva previsto la pericolosità del fenomeno che, in quel tempo, iniziava ad estendere i suoi tentacoli nella pianura di Sibari e faceva la sua comparsa anche a Corigliano.

Solo dopo qualche tempo, quando ormai il fenomeno criminale era esploso in tutta la sua violenza, seminando morte e paura, finalmente  se ne dovette prendere atto anche da parte di coloro che prima ne avevano negato la sussistenza.

Ma, intanto, il Sindaco Meligeni era costretto ad affrontare i processi per difendersi dalle ricorrenti accuse di avere posto in essere reati, nell’esercizio delle funzioni pubbliche, alle quali era stato democraticamente preposto; reati che, in astratto, comportavano anche gravi violazioni della legge penale, ma che – come si è detto – in concreto, nella celebrazione dei relativi processi, si rivelavano del tutto inconsistenti.

Meligeni: autoritratto

In questa trafila giudiziaria – vera e propria via crucis – che, di fatto, lo metteva a dura prova, anche se mai esternò un qualche segno di debolezza o di stanchezza, Egli si trovò in perfetta solitudine, con eccezione della solidarietà dei suoi compagni di Corigliano. Ricordo, a tale proposito, che, dopo uno dei vari processi e l’ennesima assoluzione, mentre scendevamo le scale del tribunale, ad un certo momento, improvvisamente si fermò e mi disse: “se tu non mi avessi difeso, sarei stato solo come un cane”! Ma io lo difendevo gratuitamente esclusivamente per amicizia e non per questione di appartenenza politica.

Il fatto oggettivo è che gli organismi provinciali del partito probabilmente non l’avevano in simpatia; mai gli assicurarono una qualche difesa penale; cosa che non si verificò in altri casi. 

Quando fu arrestato insieme ad altri amministratori, la direzione regionale inviò a Corigliano un funzionario, che tenne una riunione nei locali dello Scalo per comunicare che a Gabriele Meligeni doveva essere ritirata la tessera del partito perché era inquisito. Inutilmente spiegai ed illustrai al predetto come e perché l’accusa era infondata. Da essa, infatti, Meligeni successivamente fu assolto in istruttoria. Ma il funzionario del pci non volle sentire ragioni. Fu irremovibile. Sicchè Gabriele venne “ferito con due coltelli”: da quello della cosiddetta giustizia del suo partito e dalla giustizia statale. Sempre ingiustamente, come dimostrò il successivo processo, nel quale Gabriele fu mandato assolto da ogni accusa.

Egli fu vittima del suo stesso partito che ebbe a negargli anche la candidatura al collegio senatoriale. Ma Gabriele, nonostante tutto, rimase fermo nei suoi ideali anche dopo lo scioglimento del partito mentre i suoi dirigenti si dispersero in mille rivoli, avviandosi – dopo la Bolognina – verso un incredibile epilogo e disperdendo i suoi valori storici, che pur restano patrimonio della storia politica e culturale del nostro Paese. Molti anni prima della fine del comunismo reale, Enrico Berlinguer, coraggiosamente, nello stesso Cremlino, ne aveva denunciato l’involuzione facendo apparire – è stato scritto – “i sontuosi marmi…come un fondale di cartapesta”; se “uno qualsiasi dei suoi esangui eredi avesse avuto il coraggio di liberarsi delle proprie ipoteche quando questo aveva ancora un prezzo, la storia della sinistra – in Italia – non sarebbe stata azzerata con tanta grottesca goffaggine dall’autolesionismo dei leader immemori”. redazione@altrepagine.it

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