C’è anche una donna di Corigliano-Rossano tra i 26 arrestati stamane nella maxi-operazione anti-‘ndrangheta della Direzione investigativa Antimafia di Roma contro il “locale” ‘ndranghetistico attivo nella Capitale. Si tratta di Immacolata Cristina Giustino, 50 anni, coriglianese residente nella frazione marina di Schiavonea (foto), finita in carcere all’alba per i reati d’associazione a delinquere di stampo mafioso ed altri tre capi d’imputazione.
La donna è moglie del 54enne Antonio Giorgio Florio, condannato definitivo a 4 anni di reclusione nel maxi-processo per ’ndrangheta e traffico internazionale di droga “Gentlemen”, istruito nel 2015 dalla Procura distrettuale Antimafia di Catanzaro.
Proprio il traffico di droga è una costante nella famiglia Giustino: nel giugno del 2020, un familiare 55enne dell’odierna arrestata era stato fermato ed arrestato dalla guardia di finanza mentre alla guida d’una Fiat 500 X cercava d’attraversare il valico di frontiera del Brennero, diretto in Italia con un carico di 33 chili di cocaina nascosto in un’intercapedine della vettura.
Lo scorso mese di febbraio, invece, proprio a Schiavonea, la polizia aveva arrestato un altro suo familiare 26enne, mentre cedeva alcune dosi di sostanze stupefacenti a un altro giovane della Marina coriglianese.
Stamane è dunque scattata l’ordinanza applicativa della misura cautelare in carcere nei confronti della 50enne, ritenuta dalla Dia addirittura appartenente alla ‘ndrangheta attiva su Roma.
Il provvedimento, che riguarda altre 25 persone come lei finite in carcere e un’altra agli arresti domiciliari, è stato spiccato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale della Capitale su richiesta della locale Procura distrettuale Antimafia.
Associazione mafiosa, sequestro di persona, fittizia intestazione di beni e altro i reati contestati agli arrestati, a vario titolo. Non solo: 25 società, per un valore totale di 100 milioni di euro, sono state sequestrate nell’ambito della stessa operazione di polizia giudiziaria.
La ’ndrangheta Capitale
Lo scopo degl’indagati – è emerso dagli accertamenti – era quello d’acquisire la gestione e il controllo delle attività nei più svariati settori: ittico, della pianificazione e della pasticceria. L’organizzazione faceva poi sistematicamente ricorso ad intestazioni fittizie, al fine di schermare la reale titolarità delle attività e di commettere delitti contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale e in materia d’armi. L’obiettivo era inoltre quello d’affermare il controllo egemonico delle attività economiche sul territorio, realizzato anche attraverso accordi con organizzazioni criminose omologhe, e, comunque, infine, di procurarsi ingiuste utilità.
L’inchiesta “Propaggine” e il ruolo dei reggini Alvaro e Carzo di Sinopoli e Cosoleto
Gli arresti di questa mattina seguono quelli avvenuti nel maggio scorso nell’ambito dell’inchiesta “Propaggine” – coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò – che aveva colpito la prima locale di ‘ndrangheta della Capitale portando all’esecuzione di 43 misure cautelari a carico d’altrettanti indagati. Un’organizzazione che vedeva al vertice la famiglia degli Alvaro di Sinopoli – in particolare Vincenzo Alvaro – ed Antonio Carzo, originario di Cosoleto.
Dalla Calabria al resto d’Italia, fino all’estero
Più in particolare, l’attività di indagine compendia le recenti evidenze connesse alle investigazioni che avevano determinato l’esecuzione, il 10 maggio scorso, di 43 misure cautelari essendo stati raccolti elementi gravemente indiziari in ordine all’esistenza, nell’ambito dell’associazione di ‘ndrangheta operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria e delle altre province calabresi, sul territorio di diverse altre regioni italiane (Lazio, Lombardia, Emilia, Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta) e sul territorio estero (Svizzera, Germania, Canada, Australia), costituita da molte decine di locali e con organo collegiale di vertice denominato “la Provincia”- d’una articolazione operante sul territorio del comune di Roma (denominata “locale” di Roma, “distaccamento” o “propaggine” del locale di Cosoleto), ma composto anche da soggetti appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta originarie di Sinopoli e d’altri comuni calabresi oltre che da alcuni soggetti romani, avvalendosi della forza d’intimidazione che scaturisce dal vincolo associativo e delle conseguenti condizioni d’assoggettamento e d’omertà che si creavano nei territori.
La vocazione imprenditoriale della struttura criminale
Nella precedente ordinanza – essendo medio tempore stata confermata dal Tribunale del riesame la configurabilità del reato d’associazione di tipo mafioso – s’era rilevata la vocazione imprenditoriale della struttura criminale mediante il sistematico ricorso all’intestazione fittizia di valori, realizzando il controllo d’aziende, ditte individuali e società nei diversi settori, tra gli altri, della panificazione, della gastronomia, della ristorazione, dell’intrattenimento e del gioco scommesse autorizzato (tabaccherie, sale giochi, centri autorizzati di ricariche carte e di vendita di tagliandi e giochi controllati dall’Agenzia dei monopoli di Stato), di vendita e noleggio d’auto.
Un modello collaudato
L’attuale provvedimento cautelare, a conclusione dell’ulteriore approfondimento investigativo realizzato dall’ottobre del 2021, compendia e completa nel dettaglio quanto già emerso in occasione dei sequestri, operati in parallelo al precedente provvedimento, delle 25 società per un valore totale di circa 100 milioni di euro.
L’attività d’indagine compiuta nell’ambito del presente procedimento ha consentito infatti di ricostruire, in termini di gravità indiziaria, l’applicazione sistematica di uno schema collaudato, d’un modello finanziario “ciclico”, tipizzato nel seguente schema: abbandono della società ritenuta compromessa; utilizzo d’una società nuova; acquisizione della ditta e dei contratti di locazione con la distrazione di beni, stigliature, insegne ed avviamento dell’azienda appartenente alla società da abbandonare; individuazione dei nuovi intestatari fittizi attraverso i quali continuare a possedere le attività commerciali e mantenere il controllo delle stesse.
L’anticipo e le cambiali
L’attività d’indagine compiuta nell’ambito del procedimento ha consentito di ricostruire come i vertici e i componenti del “locale” di Roma, acquisiti gli esercizi aziendali, ne acquisissero di frequente anche gli immobili, versando, all’atto dell’acquisto, un anticipo spesso insignificante, diluendolo, poi, in centinaia di rate, garantite da cambiali che, secondo le intercettazioni telefoniche ed ambientali strumentali all’inchiesta, erano in realtà pagate in contanti;
ovvero ricorressero ad operazioni di ricarica di carte postepay, fittiziamente intestate a terzi, effettuate presso i terminali delle tabaccherie sotto il loro controllo, utilizzando lo scoperto garantito da “Sisal” che successivamente veniva reintegrato con versamenti contanti. redazione@altrepagine.it