di Domenico A. Cassiano

Il professor Maurizio Viroli, docente di teoria politica all’Università di Princeton, in un suo recente saggio significativamente intitolato La libertà dei servi (ed. Laterza, 2010, pp. 144), prova a spiegare ciò che è accaduto e sta accadendo nella politica italiana.

Parte dalla distinzione tra libertà del cittadino e libertà del suddito. La prima “consiste nel non essere sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo o di alcuni uomini”. La seconda, invece, nell’assenza di ostacoli “nel perseguimento dei nostri fini”.

In termini più semplici:

la libertà non tollera alcun padrone, né buono né cattivo. Poiché essere liberi presuppone di non essere sottoposti ad un potere enorme di una o più persone, ne consegue che gli Italiani non possono dirsi liberi perché essi sono, sì, liberi ma godono della libertà dei servi o dei sudditi, sottoposti come lo furono recentemente all’abnorme potere di Silvio Berlusconi, proprietario di televisioni, di giornali, di case editrici, che poteva contare su una ricchezza  spropositata e su un partito personale, da lui fondato e prono ai suoi voleri ed i cui componenti “sono fedeli non ad un ideale ma a lui”.

Tale situazione – non del tutto mutata dopo il declino berlusconiano –  ha dato origine al “sistema della corte”:

“una forma di potere caratterizzato dal fatto che un uomo sta al disopra e al centro di un numero più o meno grande di individui – i cortigiani – che dipendono da lui per avere e conservare ricchezza, status e fama”.

Le fonti del pensiero politico liberale e repubblicano, antico e moderno, affermano ad unanimità che la libertà del cittadino si sostanzia nella necessità di non essere dipendenti da altro soggetto che dispone di un potere enorme ed arbitrario:

enorme perché superiore a quello di tutti gli altri cittadini, può sfuggire alla sanzione delle leggi o può farle a suo piacimento secondo i suoi interessi; arbitrario perché non incontra ostacoli nel suo esplicarsi coll’imporre la propria volontà.

Cicerone, dopo avere affermato che la vera libertà esiste solo “in quella repubblica in cui il popolo ha il sommo potere” e le leggi garantiscono “una assoluta uguaglianza di diritti”, esemplifica il concetto rilevando che “la libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto”. Questa concezione fu ulteriormente approfondita ed elaborata dai giuristi e filosofi umanisti e, successivamente, dagli scrittori liberali e repubblicani.

Per Machiavelli, gli uomini liberi sono quelli che “non dipendono da altri” e “nascono liberi e non schiavi”. Similmente, per John Locke è libero chi agisce nei limiti delle leggi “senza essere in ciò soggetto alla volontà arbitraria di un altro”. Per J. J. Rousseau, “un popolo libero obbedisce ma non serve” perché obbedisce soltanto alle leggi e non ha padroni; anzi, proprio per il fatto che osserva le leggi “non diventa servo degli uomini”.

Tanto perché la libertà dei cittadini è garantita dalle leggi e, quindi, è libertà nelle leggi e non dalle leggi. Sono le leggi che preservano la libertà dei cittadini, determinando le condizioni di uguaglianza. Se in uno Stato c’è qualcuno che è più potente delle leggi o che può usarle a suo piacimento, ivi non esiste la libertà dei cittadini perché uno Stato che vuole “vivere in libertà” non deve permettere che un cittadino o un gruppo di cittadini “possa più che le leggi”. Nella Firenze del Quattrocento, i Medici, diventati  troppo grandi “sopra gli altri”, resero serva la città, anche senza l’uso della violenza fisica. Situazione rimarcata dal Machiavelli con l’annotazione che “una città non si poteva chiamare libera, dove era un cittadino che fusse temuto dai magistrati”.  

Il sistema della corte si afferma e consolida quando in uno Stato – come nel caso italiano – è permesso a qualcuno con un enorme potere economico e che per sovrappiù gestisce buona parte dei mezzi di comunicazione di massa ed è anche il padrone di un partito personale, composto di persone a lui devote e prone, di porsi di fatto al disopra degli altri, acquisendo un potere straordinario che nessun capo di governo democratico mai ha avuto in occidente.

Nel contesto del sistema cortigiano, tutto il potere è nelle mani del signore e padrone, che occupa la “posizione più elevata e centrale” rispetto a tutti gli altri soggetti, che scelgono di sottostagli “per avere, conservare e aumentare ricchezza, status e la possibilità di apparire ed essere ammirati”. Ed è il signore che distribuisce favori e prebende ai cortigiani così come li può efficacemente privare o altrettanto efficacemente minacciarli qualora venissero meno al vero e proprio obbligo di fedeltà. I beneficati, tratti dall’oscurità e diventati – senza meriti propri – deputati, ministri, presidenti di Regione ecc., per volere del padrone, si trasformano per forza di cose in suoi  feroci sostenitori sia per acquisire nuovi favori sia per non perdere quelli già acquisiti. Una enorme catena – a volte, di fango – lega necessariamente gli uni agli altri e tutt’insieme al signore e padrone. Tale gerarchia medioevale, in cui un soggetto diventa ignominiosamente “homo” di un altro uomo, ha soltanto la parvenza di partito; in effetti, si è in presenza di una nuova forma di infeudazione, in cui nessuno può mettere in discussione la parola e le decisioni del signore. Pena la cacciata immediata dalla comunitas fidelium  e la messa al bando del reprobo. Il caso clamoroso dell’onorevole Fini – Presidente della Camera dei Deputati e non l’ultimo peones – scacciato dal partito, di cui era stato cofondatore, per non essersi allineato alle decisioni del signore e padrone, è assai significativo della situazione di degrado politico, culturale e sociale, di servitù volontaria, in cui è precipitata l’Italia.   

Ricorda il Prof. Viroli che i “segni” del nuovo e degradato potere pubblico hanno inferto ferite profonde nel corpo della nazione. Come al tempo dei Medici, il signore – oggi impersonato dai capi per lo più mediocri e ignoranti di partiti personali – ha introdotto la pratica di convocare, a suo piacimento, politici nazionali ed esteri per trattare le questioni pubbliche, così esaltando  il suo potere ed oggettivamente avvilendo la libertà e la dignità repubblicana. Centrale è la presenza delle “cortigiane” che – come ha già spiegato il Castiglione – svolgono il ruolo di “allietare il signore ed i suoi cortigiani” e che, per ricompensa delle prestazioni, ricevono benefici vari, in spicchi di potere od in denaro.

Le cronache del tempo berlusconiano e post-berlusconiano sono affollate da attrici, attricette, divette, escort, veline, letterine e simili, che complessivamente i giornali qualificano come un grande “puttanaio”. Accanto alle cortigiane ed ai cortigiani, non manca il giullare che, con le sue canzoni o con quelle composte dal signore, intrattiene la compagnia, a volte, cantando insieme allo stesso signore inni e canzoni “senz’anima”. Ma proprio perché “senz’anima” – annota il Viroli – “è perfetta per un popolo di cortigiani che l’anima l’hanno venduta al signore”.

Ora, se si prova ad immaginare per un solo momento questa Italia, lastricata da schiene curve, da piccoli personaggi dalla incerta eticità, raffrontandola con quella di Giolitti, De Gasperi, Togliatti, Berlinguer, Moro, Fanfani, La Malfa, Amendola eccetera, si tocca con mano il baratro morale e culturale in cui è caduta con gli innumerevoli odierni cortigiani, pronti e disposti ad avallare pubblicamente tutte le tesi – anche le più inverosimili – del signore, malcelando risentimenti e sordi rancori e maturando quella aggressività verbale “che scaricano di preferenza contro le persone libere, quelle che, con schiera dritta, non si piegano ai capricci di un signore” ed alle indecorose mode del momento.

La “gente”, come oggi si usa dire, assiste perlopiù allo spettacolo forse sperando “di ottenere fama, onori e denari”. La sconsolata conclusione del Viroli è che, così, “la corte penetra nel corpo della nazione, e con essa i modi di pensare, parlare e agire servili”.

Eppure, nonostante il degrado in cui è caduta, è ancora possibile riscattare la nostra Repubblica, trasformata in una grande corte con il consenso – purtroppo! –  di milioni di italiani, e con le conseguenze orripilanti del servilismo, dell’adulazione, dell’immedesimazione con il signore, della prevalenza del desiderio di apparire anche a scapito dell’onorabilità, dell’arrogante presenza di buffoni e di cortigiani.

Quale potrà essere il rimedio?

Esso dipende dalla natura del male. Poiché il male è costituito dalla perdita della dignità di cittadini, occorre urgentemente riscoprire il “mestiere del cittadino”. Naturalmente si tratta di “scelte coraggiose ispirate da una profonda devozione all’ideale della libertà repubblicana. La sola alternativa alla libertà dei servi – specifica il Prof. Viroli – è la libertà dei cittadini”.

Non è inutile sottolineare – come rileva lo stesso Autore – che i servi emancipati non diventano immediatamente liberi, ma liberti, “che hanno – come scrisse Piero Calamandrei – ancora nella schiena l’anchilosi dell’assuefazione agli inchini e non riescono a sentire i nuovi doveri della libertà”. Ma Calamandrei scriveva tali parole oltre un sessantennio fa. Ora – è l’amara conclusione del Viroli – “gran parte degli italiani non si sono elevati da liberti a cittadini, ma regrediti da liberti a servi volontari”. redazione@altrepagine.it

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