di Domenico A. Cassiano

Nell’ultimo quindicennio, la situazione complessiva del nostro Mezzogiorno ha registrato un regresso oggettivo sotto il profilo dello sviluppo generale, connesso – ed è il dato più preoccupante – con il decremento demografico che, anziché diminuire, ha aggravato l’allargamento della forbice tra il Nord ed il Sud. 

Tale fenomeno che, tra l’altro, ognuno può toccare con mano, è venuto progressivamente determinandosi in quest’ultimo trentennio, durante il quale il governo nazionale ha di fatto posto tra parentesi la questione meridionale. 

Uno degli ultimi Rapporti Svimez, che ha pubblicato i dati relativi alla consistenza della popolazione, all’emigrazione, alle nascite, alle morti, alle prospettive di sviluppo economico ed, in generale, alla crescita complessiva, denunzia una situazione di estremo allarme, che non lascia a sperare nulla di buono e di positivo per il futuro. 

Eppure non è dato registrare, salvo rare eccezioni, nessun grido di preoccupazione e di dolore da parte della classe politica dirigente meridionale. Evidentemente – è l’amara constatazione – o non si percepisce l’estrema gravità della situazione oppure ci si rassegna ormai al progressivo ed inarrestabile decadimento. 

Scendendo all’analisi dei singoli aspetti della questione, stando ai dati oggettivi, elaborati dagli studiosi dello Svimez, si tocca con mano la reale gravità della situazione. 

I dati, relativi alla emigrazione dalle regioni meridionali verso il Nord e verso i paesi esteri, sono assai preoccupanti sia in riferimento alla qualità che alla loro quantità. Sotto il profilo qualitativo, è di comune e quotidiana esperienza ed è un fatto notorio che il fenomeno emigratorio, in questi ultimi tempi, riguarda per lo più diplomati e laureati, costretti a fuggire dal Mezzogiorno, per l’impossibilità di trovare in loco una confacente occupazione. Non si tratta più solo di forza-lavoro manuale, ma intellettuale e, cioè, di una necessaria risorsa di competenze e capacità intellettuali che avrebbero dovuto essere impiegate in loco e costituire la base dello sviluppo e della rinascita.

In questi ultimi anni, secondo i calcoli dello Svimez, si registra addirittura la fuga degli studenti dalle università del Sud per iscriversi in quelle del centro-nord. Nel solo anno accademico 2016-2017, le università meridionali hanno registrato un saldo negativo pari a 157 mila studenti. Ciò avviene per il fatto che conseguire la laurea nelle università del Centro-Nord significa la possibilità di trovare lavoro più facilmente. Infatti – sempre secondo i dati dello Svimez – solo il 43% dei laureati nel Mezzogiorno riesce a trovare lavoro entro i tre anni dal conseguimento del titolo di studio. Mentre, nel Centro-Nord, entro lo stesso termine triennale, 73 ragazzi su cento trovano una occupazione adeguata e soddisfacente. 

La percentuale dei laureati emigrati arriva a cifre elevate, toccando, per esempio, in Abruzzo il 33,6% ed in Basilicata il 34%. 

Siamo in presenza di un esodo forzato, che ovviamente depaupera il Mezzogiorno di intelligenze e di capacità che, se opportunamente incoraggiate a restare in loco, potrebbero costituire quella forza propulsiva necessaria alla rinascita. Da sottolineare che, ad andarsene, di solito, sono i più capaci, i più intraprendenti che riescono ad eccellere all’estero ed ai quali è evidentemente impedito di emergere e di lavorare in loco

Questo avviene non per pura fatalità o per cause imperscrutabili. Le classi dirigenti meridionali dovrebbero avere il coraggio di farsi una severa autocritica per il modo come viene gestito il potere pubblico, condizionato all’evidenza da una ragnatela di maglie clientelari, qualche volta inquinato da oscure pressioni o da interferenze o addirittura connivenze con organizzazioni criminali.

Nella recente audizione al senato, l’ex commissario alla sanità della Calabria, ingegner Massimo Scura, ha evidenziato – fornendo una serie di casi – che “in Calabria c’è un grave problema etico”. Questo stato di fatto non incoraggia a restare; anzi, stimola i più capaci a scappare in fretta, letteralmente schifati dalla prassi corrente di gestione della pubblica amministrazione non sempre coerente, sotto il profilo etico, con i principi della moralità, pur solennemente proclamati e pubblicamente invocati, ma, di fatto, smentiti nella prassi, che, invece, denota una sorta di rinnovato e moderno feudalesimo, oltre che di familismo amorale. Avviene, per conseguenza, che chi non ha santi in paradiso e conta sulle proprie capacità e sulla propria preparazione, viene di solito messo da parte perché non prevale il merito sulle assunzioni, ma l’amicizia, il comparaggio, la fedeltà al protettore. 

Quel che colpisce è che il drammatico e progressivo spopolamento delle regioni meridionali avviene silenziosamente, nella generale indifferenza. Sembra che, nel Mezzogiorno, l’orologio della storia giri all’indietro per riportarci ad un lontano passato, addirittura antecedente al secondo dopoguerra, quando perlomeno masse di braccianti e di contadini poveri si mossero per il riconoscimento del diritto alla terra, segnando la magnifica pagina della lotta per la rinascita ed il lavoro. 

Oggi, invece, sembra mancare anche la consapevolezza collettiva della drammaticità della situazione mentre, proprio sotto gli occhi di tutti, paesi ed antichi insediamenti umani si vanno progressivamente e paurosamente spopolando ed anche gruppi etnici di antica civiltà sembrano destinati a scomparire come in un passivo processo di genocidio.   

Nel periodo 2002-2016, secondo il Rapporto Svimez, sono emigrati dalle regioni meridionali un milione e 883.872 cittadini residenti; quasi la metà (783.511) non vi ha fatto più ritorno. Si tratta di una cifra considerevole: è come se alcune medie città del Sud fossero sparite nel nulla. “E’ una perdita inesorabile” – annota lo Svimez – che ha avuto come conseguenza “un grave depauperamento della struttura demografica e del tessuto sociale” se si considera – sostiene Sergio Rizzo ne La Repubblica del 2.8.2018 – che “i tre quarti degli emigrati sono giovani di età compresa fra i 15 ed i 34 anni: 564.796, numero pari agli abitanti dell’intera Basilicata. E siccome il fenomeno non accenna a diminuire, le previsioni sono terrificanti”

Tanto perché la diminuzione delle nascite non vale a coprire il vuoto, lasciato dal processo emigratorio, col negativo risultato della diminuzione del “peso demografico del Sud”, che è in progressiva fase discendente e, già oggi, esso è pari solo al 34,2% della popolazione della Penisola. 

Anno dopo anno, dal 2012, il numero delle morti è superiore a quello delle nascite: fenomeno che, mai si era verificato in precedenza nella storia italiana, salvo che in due periodi, nel 1866 e nel 1918, dovuto ad eccezionali evenienze e, cioè, alle epidemia del colera, nel primo caso, ed all’influenza della cosiddetta spagnola, successivamente. 

Di questo passo, il Mezzogiorno – secondo i calcoli dello Svimez – in prospettiva avrà una popolazione esclusivamente di anziani con una età media sui cinquanta anni. Il che naturalmente induce a considerare che, a causa del decremento demografico e del conseguente depauperamento e dello stravolgimento della struttura della popolazione, le prospettive di sviluppo economico, politico e sociale risultano assai problematiche e di oggettiva e difficoltosa soluzione.

Il nostro Sud attraversa, dunque, una fase di estremo affanno e di decadimento. La pur drammatica attualità della questione meridionale non figura nell’agenda dei governanti. Nel tempo – speriamo di breve durata – della confusione collettiva e dell’incompetenza al potere, pare non vi sia spazio per affrontare e risolvere i veri e reali problemi del momento e che tutto si riduca – come nelle commedie di Aristofane –  ad uno scontro tra demagoghi ribaldi in cui un “ribaldo” incontra un altro, “adorno di ribalderie molto maggiori e di inganni vari e di parole astute”. redazione@altrepagine.it

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