di Domenico A. Cassiano

Nel 1613, presso la tipografia napoletana di Lazzaro Scorriggio, Antonio Serra pubblicava il suo “Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro, & argento, dove non sono miniere con applicazione al Regno di Napoli.Del Dottor Antonio Serra della Città di Cosenza”.

Ma chi era il “Dottor Serra”?

Di lui non si sa nulla, se non che era nel carcere napoletano della Vicaria e che il 10 luglio 1613 dedicava il suo breve trattato al vicerè di Napoli, Don Pedro Fernàndez de Castro conte di Lemos per offrigli dei consigli al fine di risolvere la situazione economica del regno di Napoli. Ma, prima di parlare dell’importanza e della rilevanza dell’opera nell’ambito delle dottrine economiche, è opportuno un cenno alle ipotesi che si fanno sulla vita del Serra.

Pare che sia nato a Celico nella metà del secolo XVI. Non si conosce in quale disciplina fosse dottore. Secondo alcuni, sarebbe stato incarcerato per avere partecipato con fra Tommaso Campanella alla famosa rivolta antispagnola in Calabria, alla fine del secolo XVI, per la quale lo stesso Campanella era detenuto nel carcere napoletano di Castel dell’Ovo e s’era salvato dalla sicura condanna a morte, fingendosi pazzo.

Non v’è, però, alcun elemento di certezza che avvalori detta ipotesi. Anzi, secondo alcuni studiosi, essa sarebbe del tutto da escludere, non trovando alcun elemento di convalida nelle stesse opere del Campanella e – soprattutto – nelle carte e nei documenti sulla congiura. Luigi Amabile, nel terzo volume della sua opera Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia (Napoli, 1882), dà notizia dell’esistenza di due documenti, dai quali risulterebbe che un certo Antonio Serra era stato condannato per falsificazione di monete.

Il saggio di economia del Serra era stato scritto per essere preso in considerazione dalle autorità politiche dell’epoca con lo scopo di dare un aiuto ed un utile consiglio per superare le difficoltà economico-finanziarie del regno di Napoli e perché si potesse mettere alla pari con gli stati italiani più avanzati, Venezia in particolare. Secondo la documentazione ritrovata, il Serra fu ricevuto a corte il 6 settembre 1617, ma le sue ricette economiche furono ritenute null’altro che “chiacchiere” e, quindi, fu riportato nel carcere, dove, peraltro, era detenuto senza processo.

Non si sa quando e dove è morto; la sua vita è avvolta nell’aureola della leggenda. Egli, com’è stato giustamente osservato, è un autore che vive e si rispecchia solo nella sua opera, della quale residuano pochi esemplari.

Uno di questi si trova nella tanto benemerita, ma tanto bistrattata Biblioteca Civica di Cosenza; è quello appartenuto a Francesco Saverio Salfi che, dopo l’economista napoletano Ferdinando Galiani, scrisse un interessante Elogio di Antonio Serra (1802), nel quale colloca il Serra nella scuola filosofica meridionale  del Telesio, Bruno e Campanella e lo addita come l’iniziatore degli studi  della economia moderna: “il più antico scrittore…se una tale gloria era stata sinora da altre nazioni usurpata…cesserà ogni disputa ed all’Italia verrà concordemente concessa ogniqualvolta si ponga mente all’epoca dell’opera e dell’autore”.

L’opera del Serra, riscoperta dopo l’oblìo di un secolo e mezzo, fu oggetto di studi e di considerazioni positive in patria e – nel corso del ‘900 – anche all’estero. Vincenzo Dorsa, professore di lettere latine e greche al Telesio di Coenza, già collaboratore de Il Calabrese e de Il Bruzio, nel 1870, prim’ancora del Croce, pubblicò l’Elogio di Antonio Serra, primo scrittore di politica economica, evidenziando l’importanza del pensiero politico ed economico dell’autore nella storia del Mezzogiorno. Pensiero, ripreso da Benedetto Croce che, ne La storia del Regno di Napoli (1925), mise in evidenza come e perché il breve trattato non fosse altro che un saggio di critica politica in quanto, oggettivamente e senza infingimenti od altri fronzoli, denudava le tristi condizioni del regno napoletano, indicandone le cause ed i probabili rimedi, il quale regno non è ricco – come erroneamente si crede – bensì povero “per il sito che non favorisce il “traffico”, per mancanza di industrie, per l’indole degli abitanti e, infine, per deficienze nella gestione e nel governo dello Stato. 

In altri termini, le cause che favoriscono il benessere sono determinate dalla “quantità dell’artificij”, dalla “qualità delle genti”, dal “traffico grande” e dalla “provisione di colui che governa”. Sono questi gli “accidenti comuni”, ai quali il Serra annette rilevanza fondamentale e che difettano nel Regno che, posto come fuorimano, per la sua posizione geografica, non è adatto al commercio – come, invece, Venezia – “sì che non torna comodo ad alcuno portar robbe in esso per distribuirle in altri luochi” e, per recarsi in  altre parti, non si è neppure obbligati a passare per il regno di Napoli.

La carenza di “artificij” ossia di industrie pone Napoli all’ultimo posto e Venezia al primo. Quelle poche industrie esistenti non sono sufficienti a favorire il crescere della ricchezza. Il Serra è dell’opinione che l’attività industriale è superiore a quella agricola perché, mentre quest’ultima è condizionata dall’andamento climatico ed è, quindi, aleatoria, rendendo il guadagno incerto, l’industria, invece, non è frenata da condizionamenti naturali, dipende dalla capacità dell’uomo ed i suoi prodotti possono essere trasportati, conservati a lungo e venduti ovunque; e, dunque, è produttiva di ricchezza. 

Altra causa che concorre alla produzione della ricchezza è la “qualità delle genti” ossia la laboriosità e l’impegno della popolazione che condizionano negativamente – nel regno di Napoli – lo sviluppo dell’attività produttiva. Ciò perché gli abitanti “non trafficano finora del loro proprio paese, e non solo non trafficano nelle altre provincie d’Europa, come Spagna, Francia,  Alemagna e altre, ma neanche nella propria Italia, né fanno l’industrie del paese loro istesso, e in quello vengono a farle gli abitatori d’altri luoghi, principalmente della loro medesima provincia, come sono genovesi, fiorentini, bergamaschi, veneziani e altri; e con tutto che vedono le predette genti far l’industrie nel loro medesimo paese e per quelle arricchirsi, pure non sono di tanto d’imitarli e seguir l’esempio, fatigando nelle proprie case”.

Fondamentale nel favorire il processo produttivo che genera la ricchezza è l’azione del buon governo, che deve tendere al benessere della collettività ed all’interesse pubblico e deve avere “per oggetto il beneficio pubblico”. Il Serra porta come esempio il governo di Venezia, dove si sono istituiti “più e diversi ordini”, intervenendo sugli stessi per eliminarli o migliorarli a seconda delle circostanze e della esperienza, “e si compie per mezzo di essi un assiduo esame e scelta degli uomini capaci per le magistrature, e si è così data vita a una classe di senatori, che sempre offre in copia persone adatte agli uffici e che non può mai estinguersi e assicura la continuità nei concetti del governo”.

Nelle monarchie, il governo dura per la vita del re, poi si spezza la continuità per il trapasso del potere al successore. Così avviene anche in quei luoghi, come Napoli, dove il potere, affidato al vicerè, “tanto dura, quanto dura il tempo dell’officio del vicerè”.

In definitiva, il Serra coglie il rapporto di interdipendenza – al fine di garantire l’armonico e giusto sviluppo dello Stato – tra il buongoverno (“provisione di quel che governa”), la “qualità de genti” ossia della società civile, e l’economia che deve basarsi sulla “quantità d’artificij” e sul “traffico grande de negozi” ossia sulla laboriosità dei cittadini e sulla loro capacità produttiva senza timore della concorrenza estera posto che potrà essere vinta e/o limitata dalla loro intraprendenza. Qui vanno anche individuate le cause della ricchezza di Venezia e della povertà di Napoli, che è alimentata fondamentalmente “dall’industria che i forestieri vi fanno per la negligenza degli abitatori” e dal fatto che, per l’acquisto di una miriade di merci, bisogna ricorrere al mercato estero con conseguente aggravio nella bilancia dei pagamenti. Perché, nel regno di Napoli, non si affrontavano i problemi reali per risolverli e, principalmente, quello del buongoverno che è “la causa agente e superiore a tutti gli altri accidenti”?

Arias e Croce hanno visto giustamente nel Serra la voce del precursore inascoltato in vita, anzi, deriso, vituperato e umiliato nelle catene, che, però, ha avuto il coraggio di scoprire realisticamente le piaghe del regno e additare la via della resurrezione. Era un sogno di libertà, lanciato all’avvenire dal carcere della Vicaria, anche come  sfida a tutti coloro che “conoscono le bugie per verità e la verità per bugia” e che volevano nascondere i mali profondi del Mezzogiorno, ignorandone l’esistenza; contro costoro Antonio Serra si riservava di scrivere un altro saggio dal titolo Della forza dell’jgnoranza. domenico.cassiano@libero.it

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