SPEZZANO ALBANESE – Ironia della sorte al contrario, porta lo stesso nome e lo stesso cognome d’un martire della giustizia italiana ammazzato dalla mafia cui sono dedicate strade, piazze, scuole e molto altro da Nord a Sud nell’intero Paese, ma il coraggio del suo omonimo non lo vede neanche col binocolo.
Lui che, poco più d’un anno fa, ha avuto a che fare coi ritenuti ‘ndranghetisti di Spezzano Albanese omonimi ed affini di quelli di Cassano Jonio, ovverosia i fratelli Francesco e Cosimo Abbruzzese di 31 e 27 anni, il più piccolo soprannominato Cocò o Micciu, cognati del ritenuto boss cassanese Leonardo Abbruzzese detto Nino o Castellino da svariati mesi detenuto al carcere duro del 41-bis, mentre gli affini sono finiti in carcere una decina di giorni fa assieme ad altri (I NOMI | tutti gli uomini e le donne “a disposizione” del boss Leonardo Abbruzzese).
La persona dal nobile ed altisonante nome è un 44enne imprenditore agricolo di Spezzano Albanese. Che, secondo il sostituto procuratore della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro, Alessandro Riello, e il giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale catanzarese, Chiara Esposito, è una vittima proprio dei fratelli Abbruzzese.
Il magistrato antimafia Alessandro Riello
“Athena 2“: storia di una drammatica estorsione
L’uomo sarebbe stato al centro d’una drammatica tentata estorsione, se poi consumata saranno il prosieguo dell’indagine anti-‘ndrangheta “Athena 2” e gli eventuali processi a stabilirlo.
L’imprenditore è pieno di debiti in giro, complessivamente circa «100/120 mila euro», riferirà lo scorso mese di giugno agl’inquirenti la moglie, una professionista che lo ha pure aiutato a saldare qualche suo conto in sospeso.
Ma d’un debito con gli ‘ndranghetisti lei ne è assolutamente all’oscuro.
«Se entro le 2, massimo le 2 e mezza non porti i soldi, fai una fossa e buttatici dentro».
Era il 6 ottobre dell’anno scorso e i carabinieri del Reparto operativo e nucleo investigativo del Comando provinciale di Cosenza erano all’ascolto in diretta, perché i fratelli Abbruzzese erano da tempo sotto intercettazione.
L’imprenditore avrebbe dovuto saldare il suo debito già ventiquattr’ore prima, entro mezzogiorno, ma era ancora inadempiente all’“obbligazione”.
«Te l’ho detto cinquanta volte:
mi devi pagare anche il vecchio, se no lo vedi il bastone dov’è?».
E la ritenuta vittima:
«Te li sta andando a prendere».
Si riferiva alla moglie, ma anche al cognato, che «stanno facendo certi passaggi». Tutto finalizzato, a suo dire, al recupero della somma da lui dovuta.
A quel punto l’imprenditore voleva andarsene:
«Per piacere», la sua preghiera.
«Siediti lì e non ti muovere, pagliaccio di merda. Se no ti lego dietro alla macchina e ti trascino, oppure vai dai miei zii che ti stanno cercando che ti devono legare alla mangiatoia…».
Poche ore dopo furono i carabinieri a chiamare l’imprenditore e ad invitarlo in caserma.
Gli fecero ascoltare le registrazioni delle intercettazioni e gli chiesero conto delle minacce ricevute, ma lui si mostrò tutt’altro che collaborativo:
minimizzò la minaccia di poter essere legato a un’auto e trascinato:
per lui quella era «un’affermazione amichevole e dal tono scherzoso»!
Così come sull’invito a scavarsi la fossa da solo:
«Frasi dal tenore ironico».
Il debito con gli Abbruzzese, solo questo ammise al cospetto degl’investigatori, «ammonta a sette/ottomila euro ed è dovuto all’acquisto di un’auto, un’Alfa Romeo Giulietta o una Mito, non ricordo, che poi ho restituito dopo averla usata solo per una quindicina di giorni».
Una versione poco, anzi per nulla credibile, tanto secondo il magistrato inquirente quanto a parere del primo giudice.
Il Tribunale di Catanzaro
Già, perché per rientrare dal proprio debito – sono sempre le intercettazioni a rivelarlo – l’imprenditore spezzanese fu poi costretto a vendere un piazzale di sua proprietà… direttore@altrepagine.it