
di Domenico A. Cassiano
VACCARIZZO ALBANESE – Hanno sbagliato di grosso tutti quei cattedratici ed, in genere, tutti coloro che hanno parificato l’arbresh (cioè, la lingua parlata dalle popolazioni albanofone italiane) con lo shkip ossia con la lingua della Repubblica shqipetara.
Il Prof. Damiano Piro, già docente di lettere classiche per avere superato il relativo concorso, ha pubblicato un ponderoso e poderoso saggio dal titolo Il verbo nella parlata delle comunità albanofone della Calabria Morfologia e sintassi (ed. Book Sprint, 2025), in cui dimostra che l’arbresh è un unicum, un caso a sé stante, e non è tout court identificabile con la lingua degli Shqipetari.
La parlata delle comunità calabro-arbresh, infatti, per alcune sue particolari caratteristiche, ora si avvicina all’indo-europeo, “ora al greco classico e bizantino, ora al latino, ora alla shqipe, ora lo isolano da ogni altra lingua…si tratta forme verbali e usi linguistici davvero particolari come i tempi verbali che non indicano solo il momento dell’azione, ma anche la sua durata, la presenza dei cosiddetti verbi deponenti caratterizzati dalla forma riflessiva nell’arbresh e significato attivo nell’italiano…”.
Il tutto sta ad indicare che l’arbresh ha avuto una evoluzione del tutto diversa dallo shqip tanto che non può assimilarsi del tutto allo shqip e naturalmente non è allo shqip riconducibile.
A parere del Prof. Piro l’arbresh è una lingua medioevale, parlata da popolazioni albanofone, insediate nelle terre dell’Impero d’Oriente. A seguito della sua disintegrazione intorno alla metà del secolo XV, gruppi consistenti di albanofoni rimasero nella Morea (denominazione medioevale del Peloponneso), dove s’erano stabiliti da qualche secolo, integrandosi con la popolazione ed abbracciando anche l’ortodossia ed il suo rito liturgico;
altri gruppi si dispersero in Oriente e nei Balcani, convertendosi all’Islam.
Un altro gruppo di alcune migliaia di persone, dopo il 1460, quando la Grecia fu conquistata dall’esercito turco di Maometto II, che ne aveva precedentemente occupato la parte centrale e la stessa città di Atene e, nel 1453, Costantinopoli, si riversò alla spicciolata nelle coste della Calabria e della Puglia, per sfuggire al dominio musulmano.
L’ufficiale aragonese Jacobo de Calatayn, nel luglio del 1467, manifestava al re di Napoli la sua profonda “compassione” per i profughi, descritti come “meschini homini assai poveri et caricati di figli et figlie, li quali non sono accettati per queste Vostre citate et terre et stanno in la campagna nudi et malvestiti”. Perlopiù respinti dalla popolazione indigena, i profughi greco-albanesi, provenienti dalla Morea, furono benevolmente accettati pariter filios solo dai monaci italo-greci del cenobio italo-greco di S. Adriano e del Patìre, che li accolsero nelle loro terre.
Nella Calabria settentrionale, tuttora esistono e resistono, da oltre cinque secoli, gli antichi insediamenti di calabro-albanofoni, che sono analfabeti zoppi dell’arbresh perché solo lo parlano e non sanno scriverlo e non comprendono affatto lo shqip. Naturalmente non si tratta dell’arbresh antico perché, nel corso dei secoli, ha subìto le opportune evoluzioni attingendo anche al dialetto calabrese ed all’italiano. Attualmente molti vocaboli e termini si sono conservati e oralmente tramandati, ma si deve dolorosamente registrare che la lingua è in fase di accelerata perenzione:
legata alla civiltà contadina, essa non sembra resistere all’urto violento della globalizzazione, che sta desertificando gli insediamenti arbresh dopo avere ridotto al lumicino la loro pur fragile struttura economica.
I paesi ed i villaggi arbresh, salvo rarissime eccezioni, si sono svuotati perché migliaia di abitanti sono stati costretti all’emigrazione ed a stabilirsi definitivamente in altre regioni italiane o all’estero.
Né gli sportelli linguistici, istituiti nei vari Comuni, si sono rivelati uno strumento adeguato alla conservazione dell’arbresh sia perché generalmente affidati a personale precario a tempo determinato e non adeguatamente retribuito sia perché in essi si fa commistione tra l’arbresh e lo shqip, lingua non compresa dalla popolazione.
In altri tempi, invece, prima che iniziasse il processo di progressivo spopolamento dei paesi e di decremento demografico, si era notato il verificarsi dell’interessante fenomeno della forza attrattiva dell’arbresh, appena percepito, ma non approfondito in sede socio-linguistica:
nei paesi o villaggi, dov’era prevalente ed egemonico l’elemento albanofono, i gruppi o singole persone, ivi immigrati, di lingua italiana e parlanti altri dialetti, apprendevano l’arbresh in breve tempo e lo parlavano, così assimilandosi alla popolazione locale.
Tale singolare fenomeno ha avuto come conseguenza l’aumento demografico dei paesi a causa di reiterati insediamenti sopravvenuti di elementi indigeni, che hanno adottato la lingua arbresh. Sicchè, ne conseguiva che non tutta la popolazione del Comune albanofono era di origine arbresh.
Solo dai cognomi è ancora possibile distinguere gli abitanti di origine arbresh da quelli sopravvenuti. Un ulteriore conseguenza fu che l’arbresh acquisì dal dialetto calabrese e/o dall’italiano nuovi termini al fine di esprimere e di indicare oggetti e situazioni ovvero per adeguarlo alle nuove esigenze comunicative, richieste dall’evoluzione storica.
A tale proposito, lo stesso Prof. Piro non trascura dal sottolineare che “la parlata dei profughi albanesi… non ha avuto la possibilità di evolversi se non sotto l’influsso della lingua italiana o del dialetto calabrese” e che la formazione culturale degli arbresh è solo italiana, occidentale, ed i rapporti con la terra d’origine si sono interrotti dopo la caduta dell’impero d’Oriente, ricordata solo nelle parole del canto popolare O mia bella Morea, mai più veduta da quando t’ho lasciata. Va, inoltre, sottolineata la circostanza, non sfuggita al nostro Autore, che lo stesso primo poeta arbresh Giulio Varibobba (S. Giorgio Alb. 1725-Roma 1788), per scrivere il suo toccante poema Vita di Maria ha dovuto fare ricorso anche a parole italiane e calabresi, piegando ad un uso intellettuale e poetico l’arbresh, “lingua selvaggia e povera che non sa dire se non bestemmie e imprecazioni”.
Inevitabilmente doveva accadere che l’arbresh, parlato particolarmente in Calabria, doveva subire l’influenza del dialetto calabrese. Tuttavia, ancora sopravvive ed è usato come strumento comunicato nella Calabria albanese, anche se la formazione culturale dei parlanti l’arberisco o arbresh è fondamentalmente italiana e “questo è il mio mondo – ricordava l’arbresh Antonio Gramsci (1891-1937) – e non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel “Giornale d’Italia”…l’essere io oriundo albanese non fu messo in gioco perché anche Crispi era albanese e parlava albanese”.
Ora sta di fatto, come sostiene il Prof. Piro, che è un dato acquisito alla storia della Calabria la lunga e plurisecolare durata della parlata arbresh, nonostante il complesso processo di integrazione e assimilazione, spontaneamente e pacificamente verificatosi tra gli originari profughi greco-albanesi e la popolazione indigena calabrese, che, in ogni caso, scrive il nostro Autore, non ha inficiato né annullato “la genuinità, la freschezza e soprattutto la capacità comunicativa della nostra parlata”.
Sottolinea, inoltre, giustamente il Prof. Piro che sono stati gli scrittori e poeti arbresh, Varibobba, de’ Rada, Serembe, Santori ecc. che hanno dato un importante e fondamentale contributo alla letteratura della stessa Albania, facendo rivivere con la poesia e di fatto creando una unità culturale in un popolo senza patria, che solo nel ‘900 avrà riconosciuta la propria indipendenza politica.
Non solo il Prof. Piro ha affrontato e analizzato, con un duro lavoro di un dodicennio, le strutture grammaticali, ma ha aperto un campo nuovo di indagine, quello della sintassi, mai prima effettuato, analizzando in modo minuzioso la struttura del periodo, le proposizioni principali e secondarie, i complementi, il discorso diretto e indiretto, facendo seguire ad ogni capitolo puntuali osservazioni, riflessioni e considerazioni, ulteriori approfondimenti e comparazioni con altre lingue.
Si tratta, in conclusione, di uno studio rigoroso, serio e compente, che “riserva diverse novità di rilievo in merito alla struttura del verbo”, mai condotto in passato neppure dalle cattedre di albanologia, e che testimonia soprattutto la plurisecolare durata di quell’unicum linguistico, prezioso bene immateriale della Calabria, veramente meritevole del riconoscimento dell’Unesco. domenico.cassiano@libero.it