di Domenico A. Cassiano

VACCARIZZO ALBANESE – La famiglia Gramsci, benchè di indubbia origine albanese, emigrata in Calabria tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, a differenza delle altre numerose famiglie albanesi, subì un processo di progressiva italianizzazione e di assimilizzazione ai gruppi linguistici indigeni italiani o calabresi, smarrendo progressivamente, attraverso le generazioni susseguitesi, la memoria storica delle proprie origini.

Tanto è avvenuto perché la famiglia Gramsci o quella parte della famiglia Gramsci, stabilitasi a Plataci, nel Pollino, a ridosso del mare Jonio, pur essendo riuscita a costituire un rilevante patrimonio fondiario, non si accontentò di vivere con la rendita fondiaria, ma tentò la fortuna entrando nell’esercito napoletano, nel quale non pochi suoi membri ricoprirono cariche elevate, come, per esempio, il nonno di Antonio, Gennaro, che fu ufficiale dell’esercito borbonico ed alla scomparsa del regno borbonico, fu inglobato come ufficiale nell’esercito dell’Italia appena unificata (1). Fu, così, che si estraniò da Plataci e dalle sue turbolente vicende risorgimentali che videro schierate – anche in armi – su posizioni antiborboniche la stragrande maggioranza delle famiglie rural-borghesi del paese (2).

In una sua lettera dalla casa penale di Turi del 12 ottobre 1931 alla cognata Tatiana  Schucht, Antonio Gramsci, dopo avere sottolineato il proprio disinteresse per la questione delle razze, fuori dall’antropologia e dagli studi preistorici, afferma: “io stesso non ho nessuna razza; mio padre è di origine albanese recente (la famiglia scappò dall’Epiro dopo o durante la guerra del 1821 e si italianizzò rapidamente); mia nonna era gonzalese (discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia meridionale, come ne rimasero tante altre dopo la cessazione del dominio spagnolo); mia madre è sarda e per il padre e per la madre… Tuttavia la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi, sebbene ciò sia stato scritto nel “Giornale d’Italia” del marzo 1920…L’essere io oriundo albanese non fu messo in gioco perché anche Crispi era albanese e parlava albanese”(3).

Nel Gramsci di Salvatore Francesco Romano (1965) si parla genericamente dei primi anni e mesi di vita del piccolo Antonio, “simili a quelli di migliaia di nati di povera gente”, con la sua particolarità “dell’intreccio etnico…per avere un padre appartenente ad una famiglia albanese”, riproponendo, così, sostanzialmente il contenuto generico della citata lettera gramsciana (4).

Relativamente alla modestia dell’estrazione sociale, si tratta di una vera e propria favola e di un errore in cui sono incorsi molti biografi. I Gramsci, invece, appartenevano, invece, a quella borghesia rurale meridionale, segnatamente calabro-albanese o arberisca perché – come sarà chiaro in seguito  – essi, approdati in Calabria dal Peloponneso nel quindicesimo o nel corso del sedicesimo secolo, già nel Settecento, avevano raggiunto una ragguardevole posizione economica ed un sicuro prestigio sociale.      

Nelle narrazioni biografiche – suggeriva lo stesso Gramsci – occorre curare “l’importanza dei particolari” perché essa “è tanto più grande quanto più in un paese la realtà effettuale è diversa dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa dagli intellettuali che interpretano questi fatti”. Il racconto dei casi particolari di una vita rende possibile la comprensione del suo “sbocco”.

Il dato biografico o, comunque, tutto ciò che strettamente vi attiene, riveste “un grande valore storico” dal momento che si riferisce e comprende “non tanto avvenimenti autobiografici o biografici in senso stretto (sebbene anche questi non debbano mancare) quanto esperienze civili e morali, nel senso etico-politico, strettamente connesse alla vita e ai suoi avvenimenti considerate nel valore universale e nazionale”.

Nella Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori (5), non si rinvengono specifiche e particolari notizie della famiglia, anche se ne è smentita  l’umiltà della condizione sociale. Erroneamente Gennaro Gramsci, fratello di Antonio, ricorda “un Gramsci greco-albanese, nostro bisnonno, fuggito dall’Epiro dopo i moti del 1821. Gli nacque in Italia un figlio, Gennaro, dal quale ho preso il nome. Questo Gennaro, nostro nonno, era colonnello della Gendarmeria borbonica. Sposò una Teresa Gonzales: lei figlia di un avvocato napoletano, discendeva da qualche famiglia italo-spagnola dell’Italia Meridionale…Ebbero cinque figli: papà era l’ultimo; nacque a Gaeta nel marzo 1860…finito il regime borbonico, nonno venne inquadrato nell’Arma dei Carabinieri, sempre col grado di Colonnello. Morì giovane. Dei cinque figli, l’unica femmina aveva sposato un Riccio di Gaeta, ricco signore; poi, uno era funzionario al Ministero delle Finanze, uno ispettore alle ferrovie, dopo essere stato capostazione di Roma, ed un terzo, lo zio Nicolino, ufficiale dell’esercito. Papà fu il meno fortunato: alla morte del padre, studiava legge. Dovendosi trovare un lavoro, ecco l’occasione dell’impiego in Sardegna, all’Ufficio del Registro di Ghilarza…Quella di nostro padre era, dunque, la tipica famiglia meridionale di buona condizione che, alla burocrazia statale, forniva i quadri intermedi”.

Il cognome  Gramise, Gramisci o Gramsci si riscontra, per la prima volta, tra quegli albanesi che, nella seconda metà del secolo XV, abbandonarono “alla spicciolata” la Morea o sue località non specificamente identificate per sfuggire all’invasione musulmana e sbarcare nelle coste della Calabria jonica. Si trattava di alcune migliaia di “arvanites” o di greco-albanesi, che erano poi i discendenti di quegli albanesi i quali, qualche secolo prima, avevano lasciato l’Epiro per cercare migliore fortuna in Grecia, nel Peloponneso. Approdati nelle coste calabresi del mare Jonio, i profughi vagarono per le terre, per lo più in mano dei baroni, parassitari latifondisti; dopo un periodo di nomadismo, trovarono stabile dimora nelle capanne di villaggi, resi deserti dalla carestia, dalle pestilenze o dai terremoti, venendo, così, a costituire un provvidenziale serbatoio di manodopera per i locali feudatari, laici o ecclesiastici (6).

Persone, che portavano, il cognome “Gramsci” si trovano, per la prima volta, in Calabria ed, esattamente, in Lungro, nella seconda metà del Cinquecento e nel corso della prima metà del secolo seguente. Quando il feudatario, nel 1532 e nel 1545,  dispose di procedere alla “numerazione” dei “fuochi”, secondo le puntuali ricerche d’archivio dello Zangari, nel casale di Lungro, che contava 77 fuochi nel 1532 e 149 nel 1545, tra i cognomi si rinviene anche un Gramise accanto a numerosi altri: Baccaro, Bavasso, Bellezze, Belluscio, Burrelce, Conte, Cortese, Crisius, Cucchio, Cucchia, e Cuccia, Danese o Damese, De Alfano ed altri ancora, con la prevalenza dei cognomi Baccaro, Cortese, De Marco e Matino (7).

Nella numerazione del 1643, i fuochi risultarono essere aumentati fino a 382 con una popolazione complessiva di 715 abitanti, tra i cui cognomi ( Arari, Baccaro, Baffa, Bavasso, Camideca, Candreva Cucia, Danese, Dorsa, Elmo, Frega, Matano, Reres, Scura o Sgura…) continua a comparire quello dei Gramisci. In epoche successive, tale cognome comparirà anche nei villaggi albanesi, posti alla sinistra della Valle del Crati e, più tardi, in Plataci.

A proposito dei cognomi dei profughi, occorre avvertire – come ha osservato acutamente Paolo Petta (1942-1999) – che l’onomastica è “un mistero”. Perché “i cognomi albanesi del 1500, infatti, non erano nomi di famiglia, attribuiti – come lo sono oggi i nostri cognomi – sulla base di regole precise. Essi erano in certi casi nomi di clan…comuni a numerosissime famiglie e corrispondenti di regola a un toponimo; in altri casi erano soprannomi, che potevano non essere ereditari ma venire attribuiti, viceversa, ad individui non appartenenti alla stessa stirpe, ed in altri e numerosi casi, erano secondi nomi, o secondi cognomi, adottati dall’interessato per ricordare una lontana parentela in linea femminile. Non era raro, in ogni caso,  che un cognome diventasse, in un lontano parente, nome di battesimo…Non dimentichiamo, comunque che anche nel mondo balcanico, come in quello italiano, era cosa normale che il cognome di un signore fosse portato dai suoi protetti, dai suoi domestici, dai suoi contadini, e magari dagli schiavi turchi battezzati e liberati. E’, quindi, estremamente improbabile, per fare solo un esempio, che il contadino Serafino Lascari, di Piana degli Albanesi, ucciso a Portella Delle Ginestre nella strage del 1° maggio 1947, discendesse dalla grande famiglia bizantina, da cui erano usciti imperatori e umanisti…il cognome Tocci…certamente richiama quello dei Tocco, che non erano affatto albanesi, ma nei loro domini di Levante – che fra il XIV e XV secolo si estesero dalle isole jonie dalla Grecia Nord-occidentale alla costa del Peloponneso – ebbero numerosi sudditi e soldati albanesi. Allo stesso modo, il cognome Crispi, che appartenne al più famoso statista italo-albnese, richiama quello della famiglia veronese dei Crispo, che dopo la quarta Crociata ebbe feudi a Negroponte e nell’Egeo, e che ricorse a nuclei di albanesi della Morea per ripopolare l’isola di Ios”(8). Con ogni probabilità, il cognome Gramsci era portato da persone, emigrate qualche secolo prima nella Morea dalla omonima località epirota, tuttora esistente e che l’assunsero in ricordo del sito di provenienza.

Tra gli albanesi di Plataci, il cognome Gramsci comparirà molto tardi. Né è possibile determinarne con esattezza l’epoca a causa della carenza della documentazione d’archivio, andata distrutta nel 1943 in un bombardamento aereo di Napoli in cui fu distrutta o irreparabilmente danneggiata quella parte dell’Archivio di Napoli contenente anche la documentazione relativa alla numerazione dei fuochi arberischi.

Verso la fine del Settecento, in un atto notarile di compravendita, rogato dal notaio Troiano di Plataci nel corso del 1792, compaiono due Gramsci, don Nicola e la sorella Margherita. Il primo è proprietario del fondo rustico, sito alla località La Manca di San Pietro, coltivato a vigneto, pervenutogli precedentemente per successione dal padre Gennaro Gramsci. Tale fondo viene venduto, in virtù del richiamato atto notarile, alla sorella Margherita (9).

Il secondo atto notarile è del 27 aprile 1820; risulta redatto dal notaio napoletano Zeno e trascritto dal notaio Bellusci di Plataci. Con esso, il summenzionato Don Nicola Gramsci  disponeva la costituzione in dote di alcuni suoi beni immobili in favore della figlia, Donna Marianna Gramsci, in occasione del matrimonio della stessa col tenente dell’esercito borbonico, Don Gaetano Moreno (10).

I ricordi di Antonio e di Gennaro Gramsci non vanno oltre il nonno Gennaro, “colonnello della Gendarmeria borbonica”, successivamente inquadrato, alla caduta del Regno di Napoli, nell’Arma dei Carabinieri. Ed il ricordo è esatto: quel Gennaro Gramsci, padre anche di Francesco, la cui memoria appare, nei nipoti, come avvolta nel mito e nella leggenda, era proprio figlio di Don Nicola Gramsci, che compare nei citati atti notarili. Lo “zio Nicolino” – del quale riferisce a Giuseppe Fiori il maggiore dei Gramsci, Gennaro – non può essere identificato col Don Nicola Gramsci surriferito, nato a Plataci il 31 dicembre 1769 da Gennaro Gramsci e da Domenica Blaiotta e deceduto a Portici il 17 settembre 1824. Pure Don Nicola era ufficiale dell’esercito borbonico e naturalmente si era dovuto trasferire a Napoli per ragione del servizio militare. Egli aveva contratto matrimonio con Donna Maria Francesca Fabbricatore “della terra di Altimonti, Diocesi di Cassano”. Da tale matrimonio, era nato a Plataci, nel 1810, Gennaro Gramsci, padre di Francesco e nonno di Antonio, al quale – secondo l’universale e consolidata tradizione meridionale – era stato imposto il nome del nonno paterno (11).

Anche Gennaro Gramsci, così come il padre Nicola, venne avviato alla carriera militare. Lo confermano ampiamente le carte d’archivio, dalle quali apprendiamo che prestò servizio “dapprima a Cosenza e successivamente a Gaeta, da dove viene inviato dai Borbone a difendere la città di Castrovillari durante i moti insurrezionali del 1848”.

Gennaro Gramsci aveva sposato Donna Teresa Gonzales, figlia di un noto avvocato napoletano. Da questo matrimonio era nato a Gaeta il 6 marzo 1860 l’ultimo dei figli, Francesco, padre di Antonio e di Gennaro. Ed a Gaeta – come risulta dagli atti di morte dello Stato Civile di quel Comune – l’8 giugno 1873, “nella casa di contrada Vescovado, alle ore undici e mezza pomeridiane, è morto il Signor Cavaliere Gramsci Gennaro, marito di Donna Teresa Gonzales, di anni sessantuno (ma ne aveva, invece, sessantatre, essendo nato nel 1810! Ndr), Maggiore a riposo di Gaeta, figlio di Nicola e di Fabbricatore Maria”(12).

Questo era il nonno Gennaro, che “morì giovane” e che era stato – come scrive Antonio Gramsci – colonnello della Gendarmeria borbonica e  probabilmente fu tra quelli che arrestarono lo Spaventa antiborbonico e fautore di Carlo Alberto”. Lo “zio Nicolino” era uno dei figli di Gennaro Gramsci che, come il padre e l’avo paterno Nicola, era stato avviato alla carriera militare e, da ufficiale, era stato, a Caserta, anche istruttore di Vittorio Emanuele III.

La famiglia Gramsci era una delle tante famiglie di origine albanese che, dopo il loro insediamento in Calabria tra il XV ed il XVI secolo, era riuscita a crearsi una consistente posizione economica mediante l’acquisizione progressiva di notevoli appezzamenti di terreno. La conquistata agiatezza le conferiva naturalmente quel prestigio sociale sufficiente a consentirle di essere inclusa nel ristretto gruppo di famiglie che formavano, allora, la classe egemone e dirigente del villaggio (13).

Il fondo rustico, sito nella località di “Manca di San Pietro”, che Don Nicola Gramsci cede alla sorella Donna Margherita, nel 1792, e che faceva parte del compendio ereditario paterno, costituisce una circostanza di qualche rilevanza perché sta ad indicare che, anche i Gramsci, come buona parte delle famiglie, oriunde albanesi, pervenute in Calabria povere e nude come Giobbe, si fecero una piccola o grande fortuna economica con l’occupazione di quozienti di terreno in danno dei locali latifondisti, perlopiù, parassitari e neghittosi.

Nella “Manca di San Pietro”, infatti, il sottoproletariato di Plataci trovava l’unica fonte di sostentamento col solo esercizio inizialmente della pastorizia e della caccia. Successivamente i Platacesi effettuarono una pertinace e sistematica azione di disboscamento e di trasformazione agraria, eseguendo violente occupazioni di terreno per impiantavi oliveti, vigneti, ficheti e gelseti, utili all’allevamento del baco da seta, sanguinosamente scontrandosi anche con le altre popolazioni finitime.

La famiglia Gramsci, però, al contrario di quanto all’epoca avveniva solitamente per le famiglie rural-borghesi albanesi, schierate con i suoi intellettuali col movimento illuministico-riformatore meridionale (14), se ne tenne in disparte; anzi – come dimostrarono i fatti del 1848 – difese il governo borbonico, meritandosi anche qualche ricompensa militare. Il “nonno Gennaro”, a Castrovillari, nel giugno del ’48, combattè contro i volontari, guidati da Domenico Mauro (1812-1873) nella disperata difesa del governo provvisorio, che, in gran numero, erano albanesi di Spezzano, San Demetrio, Vaccarizzo, San Cosmo e dello stesso suo paese, Plataci (15).

La scelta della carriera militare aveva ovviamente avuto come conseguenza l’allontanamento dei Gramsci dal villaggio natìo e la definitiva residenza in Napoli e dintorni e tanto può averli portati a scelte politiche diametralmente opposte a quelle della generalità dei gruppi dirigenti albanesi, ove, anche per la notevole influenza esercitata dalla scuola laica di San Adriano, giudicata dalla polizia borbonica  una pura “cattedra di sovversione”, il movimento antiborbonico era di gran lunga maggioritario, con solide basi anche nella piccola borghesia e nei ceti subalterni (16).

Ma, ancora ai primi del Novecento, la posizione economica della famiglia Gramsci o, meglio, di quella parte di essa che era rimasta a Plataci, era di tutto rispetto. Essa era, nel 1905, tra i maggiori contribuenti platacesi. In quell’anno, infatti, la Giunta Municipale compilava “l’elenco dei maggiori contribuenti che dovranno procedere in una col Consiglio alla nomina della Commissione Censuaria Comunale”. In quell’elenco, che consta di quindici proprietari, vi figura Emanuele Gramsci (17).

E ciò rivestiva una particolare importanza se si tiene conto della generale situazione di precarietà delle condizioni di vita della popolazione platacese, costretta a vivere – come scriveva il deputato socialista Giulio Casalini in un articolo sull’Avanti! del 1909 – in un territorio esteso, ma aspro, ingrato. Da ciò sembrerebbe doversi capire come non abbiano potuto sorgere grandi ricchezze ed affermarsi estesi possedimenti. Le famiglie agiate si contano sulla punta delle dita. “La grande massa della popolazione è fatta da piccoli proprietari che hanno un canto di terra, una casupola e contendono, con una lotta quotidiana, un po’ di grano, un po’ di uva, un po’ di olive, più in basso, al terreno, commisto dal loro sudore” (18). Francesco Saverio Nitti, nella sua Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria (1910), pur rilevando, a Plataci, l’inesistenza di fondi rustici, superiori ai duecento ettari, vi registrava, però, la presenza egemonica di ventotto proprietari terrieri, che erano, poi, dei rentiers, a fronte dei 521 piccoli e medi proprietari (19).

La svolta nella famiglia Gramsci o, quanto meno, in un ramo della stessa avviene con l’avviamento alla carriera militare di Nicola, arruolato nel Reggimento Real Macedone, nel gennaio del 1795, e che morirà a Portici “nell’anno milleottocentoventiquattro alle diciassette di settembre”. Don Nicola, trasferitosi nella Capitale del Mezzogiorno, di fatto abbandonerà il paese natìo, facendovi probabilmente saltuarie apparizioni per sistemarvi i suoi interessi economici, unicamente legati a quei beni fondiari, pervenutigli dalla eredità paterna, tra i quali – come si è detto – quella “vigna nel luogo denominato “La Manca di San Pietro, fra gli altri suoi beni lasciatigli dal fu suo padre Gramsci Gennaro”.

Sembrerebbe logico dovere dedurre che, con la vendita del compendio fondiario ereditato, almeno questo ramo della famiglia Gramsci si sia progressivamente allontanato ed estraniato da Plataci, integrandosi e, forse, assimilandosi tra i ceti elevati o medio-alti della società napoletana dell’epoca.

Tale processo di allontanamento e di estraneazione dalla originaria minoranza linguistica calabro-albanese è sicuramente continuato con Gennaro Gramsci, figlio di Nicola e nonno paterno di Antonio, ufficiale dell’esercito borbonico e, dopo l’Unità, passato, pure come ufficiale, nell’Arma dei Carabinieri. Il grado di estraneazione dalla comunità albanofona calabrese di Plataci era tale che – come evidenzino chiaramente  le Lettere dal carcere – i Gramsci, dopo essersi rapidamente italianizzati, hanno conservato un men che vago e generico ricordo della propria ascendenza. Del nonno Gennaro sanno solo che era nato in Italia da un non meglio identificato “Gramsci greco-albanese, nostro bisnonno, fuggito dall’Epiro durante o dopo i moti popolari del 1821”. Il che non è accaduto in altri non meno ragguardevoli casi, antichi e recenti.

Lo stesso Antonio Gramsci ricorda Francesco Crispi, “educato in un collegio albanese e (che) parlava albanese”; il quale, in effetti, orgogliosamente ha rivendicato la sua origine arberisca in un telegramma alla Presidenza del primo congresso linguistico italo-albanese, tenutosi a Corigliano Calabro nell’ottobre 1895, dichiarandosi “albanese di sangue e di cuore”. Questa origine del Crispi venne esageratamente strumentalizzata nel corso di polemiche politiche fino al punto che Giuseppe Sergi arrivò a scrivere addirittura che “Crispi era di nazione albanese, portava ancora l’eredità selvaggia di quella nazione, aveva la tendenza brigantesca e riusciva bene nelle congiure e nei misteri di queste…”(20).

Il costituzionalista Costantino Mortati, benchè costretto per ragione del suo ufficio a vivere lontano dalla sua piccola patria arberisca di Civita, ne sentì sempre la struggente nostalgia. In una lettera ai soci del circolo culturale “Gennaro Placco” di Civita, scriveva che “l’amore del natìo loco e la prospettiva di venire a contatto con giovani entusiasti e pieni di ansia di rinnovamento mi inducono a non farmi sfuggire l’occasione di accettare il cortese invito…”. E ancora aggiungeva che “il Circolo di Cultura rievoca il ricordo del mio povero Padre che era orgoglioso della sua patria Civitese”(21).

I Gramsci, come si è già rilevato, della loro minipatria culturale di Plataci non fanno mai parola e, stando al ricordo di Antonio, ritengono che il nonno Gennaro, dopo essersi battuto per l’indipendenza greca, sia stato costretto a rifugiarsi nel regno di Napoli, ove si è sposato. Perché nessuno dei Gramsci ha mai ricordato Plataci, luogo di nascita dei loro antenati, di Don Nicola e del figlio Gennaro, tanto che il luogo d’origine è rimasto, per lungo tempo, sconosciuto, fino a quando, recentemente, non sono stati rinvenuti i richiamati atti notarli di compravendita? E’, forse, l’unico caso di una famiglia arberisca che non ricordi il proprio villaggio o katund.

Si può avanzare qualche ipotesi. I Gramsci effettivamente erano fuori e si tennero del tutto estranei al particolare ed effervescente clima politico-culturale degli albanesi di Calabria, che costituivano con i loro intellettuali una sorta di avanguardia del movimento democratico-repubblicano nel Risorgimento ed erano protagoniste nelle battaglie per la libertà ed in tutte le lotte progressiste del Mezzogiorno (22).

Fedeli alla monarchia regnante, essi erano distanti, anzi in opposizione, alla teoria ed alla prassi liberali. E questo era certamente motivo sufficiente per raffreddare progressivamente le relazioni ed i rapporti con gli albanesi di Calabria, compresi i loro compaesani di Plataci, in fama di giacobini, ribelli, sempre pronti a tutte le insorgenze. Gennaro Gramsci, ufficiale in servizio nel regio esercito borbonico nel 1848, nel giugno dello stesso anno, “fu – come attesta l’Archivio Militare borbonico – nella spedizione della Calabria”, particolarmente solerte, a Castrovillari, nella repressione degli insorti e di quei corpi di volontari, per lo più albanesi, compresi i suoi compaesani di Plataci, che combattevano in difesa della libertà; per tale sua condotta si guadagnò la “Croce dell’Ordine di San Giorgio…per essersi distinto contro i rivoltosi calabresi il 27 giugno 1848”.

I Gramsci di parte borbonica non dovevano sicuramente godere della solidarietà e delle simpatie della stessa  borghesia rurale e degli intellettuali locali, con i quali certamente aspro era il contrasto politico, che, non rare volte, come accade nei piccoli centri e nei paesi, divide le stesse famiglie e diventa motivo di astio e di personali rancori. Oltretutto, essi erano, in qualche modo, addirittura obbligati a dimenticare Plataci ed a tacere della loro origine calabro-arberisca in considerazione della conosciuta e temuta ostilità delle popolazioni albanesi contro la monarchia, la cui popolazione contadina aveva dato il massimo contributo ai moti del ’44 e che sarà ancora in prima linea nel ’48 e successivamente. Di Plataci era il giovane sacerdote di rito greco Angelo Basile (1813-1850) che, a Napoli, nel ’48, capeggiava la rivoluzione ed attraversava le vie di Napoli alla guida di una doppia fila di studenti, sventolando la bandiera tricolore, anche attraverso i vicoli e le viuzze della “città bassa”, popolata dal sottoproletariato dei lazzaroni, che venivano costretti a salutare e baciare il vessillo tricolore (23).

Bisognava, perciò, dimenticare la Calabria, i calabresi e gli albanesi, perché ivi più che nel resto del regno borbonico, prevalevano le correnti democratiche sovversive ed estremiste, “I radicali – come ha già sottolineato il Della Peruta – prevalgono soprattutto nelle provincie di Cosenza e Catanzaro…numerosissimi i moti demaniali; e particolarmente legati ai radicali sono le popolazioni contadine di lingua albanese, che avevano dato il massimo contributo ai moti del 1844 e che ancora nel ’48 sono in prima linea”. Di questo radicalismo calabrese, Napoli ebbe un efficace esempio proprio nella tragica giornata del 15 maggio. Malgrado le feroci repressioni e condanne alla pena capitale (a Cosenza ne furono emanate 14 a morte e 150 ai ferri; a Catanzaro 5 a morte e 133 ai ferri; l’ottusa ferocia portò anche alla condanna di un giovane barbiere reggino perché trovato in possesso dei “Canti” del Leopardi, ritenuti immorali, offensivi della religione e del buon costume), non cessarono le congiure ed i complotti. Furono proprio gli albanesi che, con l’attentato al re Ferdinando II, compiuto da Agesilao Milano, ex alunno del Collegio sandemetrese di S. Adriano, nel dicembre del 1856, smossero le acque della “morta gora” napoletana tanto da fare scrivere a Carlo Pisacane che “il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti da dottrinari”(24). Erano queste, nel loro insieme, sufficienti motivazioni per indurre Gennaro Gramsci ad interrompere ogni suo rapporto col paese d’origine e con la Calabria.       

La tradizione politica dei Gramsci, da Don Nicola fino al figlio Gennaro ed ai figli di quest’ultimo, compreso Francesco, padre di Antonio, era chiaramente conservatrice e borbonica e, quindi, diametralmente opposta a quella liberale, democratica e progressista, prevalente nel piccolo, ma ribollente mondo degli albanesi di Calabria, protagonisti di ribellioni, congiure ed insurrezioni, di colpi di testa individuali e di attentati.

Tale circostanza è confermata dallo stesso Antonio Gramsci, che nelle Lettere dal carcere ha ricordato come il nonno Gennaro “era proprio colonnello della gendarmeria borbonica”, forse un po’ egli stesso meravigliandosi. Certamente non era a conoscenza che proprio il nonno Gennaro, nel giugno del 1848, tra Campotenese e Castrovillari, a un tiro di schioppo da Plataci, aveva contribuito, al comando delle truppe borboniche, a fiaccare la resistenza degli studenti, dei contadini e degli intellettuali albanesi, compresi i suoi compaesani, che, sotto la guida del poeta romantico sandemetrese e deputato all’Assemblea legislativa di Napoli, Domenico Mauro (25), tentavano di difendere fino alla morte l’incerta vita del governo provvisorio calabrese. Ed a Campotenese – come scrive un testimone di quei fatti eroici e disperati – fu proprio un compaesano del Gramsci, Pietro Chidichimo Zecca che, nella notte antecedente la disfatta, “prese a cantare il Cristòs anésti (Cristo è risorto, n.d.R.). A quel canto si destò tutto il campo e quanti Albanesi vi si trovavano e per il primo l’illustre D. Antonio Marchianò accorsero a fare festa ed eco ai felici evocatori di quell’inno glorioso di nostra Chiesa (di rito greco, n.d.R.). Così in quella notte il canto della Redenzione pasquale valse a ridestare gli animi affievoliti, tutto il coraggio  e la speranza dei primi giorni della campagna di Campotenese”(26). 

Quivi, nella battaglia decisiva, Gennaro Gramsci dovette assistere agli atti di eroismo del giovane albanese di Civita, Gennaro Placco (1825-1896), raccontati in memorabili pagine da Luigi Settembrini, poi suo compagno nell’ergastolo di Santo Stefano, in cui, tra l’altro, scrive che il Placco  “combattè da prode, da leone, come si combattè a Maratona col coraggio di Cinegira. Animoso, spensierato…si avanza solo, non ode chi gli grida di ritirarsi, combatte fra le palle che gli fischiano attorno…ora disteso boccone a terra, ora dietro un albero, ei solo tiene fronte a cinquanta nemici irritati e meravigliati di tanto ardire. Due soldati non visti lo assaltano di fianco, gli scaricano due fucilate, una palla gli porta via il moschetto e il dito indice della mano destra, gli vanno sopra per trapassarlo con le baionette; ma egli, benchè disarmato e ferito, slanciasi, afferra con le mani le due baionette, le separa, le svia, e abbranca uno dei soldati per farsene scudo e non morire solo. Sovraggiungono gli altri, che gli danno vari colpi in testa, sulla fronte, in una natica; e l’avrebbero disonestamente ucciso, se un caporale da lui ferito in una gamba, non l’avesse generosamente salvato e frenato l’ira soldatesca”(27).

Ancora ai primi del Novecento, i figli di Gennaro Gramsci erano su posizioni politiche moderate. Giuseppe Fiore nella citata Vita di Antonio Gramsci ricorda “le lavate di testa per certa stampa sovversiva che Francesco Gramsci, inorridito, vedeva tra le mani del figlio Antonino, al quale erano inviati da Torino dal fratello maggiore Gennaro opuscoli e giornali socialisti. E da qui le dispute continue tra padre e figlio che tentava di cavarsela celiando: “E’ proprio vero – diceva – che discendi dai Borboni”!

Le origini della famiglia di Antonio Gramsci trovano, dunque, le loro radici nella comunità albanese di Plataci. Forse per una sorta di vendetta della storia, da questa famiglia, conservatrice e borbonica, è venuto fuori un rivoluzionario comunista, certamente una delle grandi menti e dei grandi intellettuali del secolo passato, che ha lasciato un’orma profonda nella cultura italiana ed europea.

Note

(1)  Mario Brunetti, Le origini di Gramsci, in “Sinistra Meridionale”, Cosenza, n. 24/25/1997; M. Brunetti e G. C. Siciliano, ivi, n. 15-16/1997.

(2)  Domenico Cassiano, Il Risorgimento in Calabria Figure e pensiero dei protagonisti italo-albanesi, ed, Marco, Lungro, 2003.

(3)  A. Gramsci, Lettere dal carcere, pp. 167-170, Milano, 2010.

(4)  Salvatore Francesco Romano, Gramsci, pp. 9-10, Torino, 1965.

(5)  Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, ed. Laterza, Bari, 1966.

(6)  Domenico A. Cassiano, Storie di minoranze Albanesi di Calabria, Vaccarizzo, ed. BookSprint, Salerno, 2017.

(7)  Domenico Zangari, Le colonie italo-albanesi di Calabria Storia e demografia secoli XV-XIX, ristampa, Farneta, 1974, pp. 21 e seg.: D. Cassiano, Storie di minoranze…cit., pp. 263 e seg..

(8)  Paolo Petta, Despoti d’Epiro e prìncipi di Macedonia, pp. 18-19, ed. Argo, Lecce, 2000.

(9)  Giuseppe C. Siciliano, Le radici di Gramsci riscoperte a Plataci, in “Calabria”, mensile del Consiglio Regionale della Calabria, maggio 1998; M. Brunetti, op. cit.. Ebbe una certa rinomanza Gramisci Salvatore, nato a Plataci nel 1881 e deceduto a Trebisacce il 1966, inventore, che partecipò all’Esposizione Internazionale di Parigi e vi ottenne una medaglia d’oro con diploma e membro della Giurìa d’Onore. Durante la prima guerra mondiale, inventò per lo Stabilimento Ausiliario di Stato, che fabbricava proiettili, un sistema che aumentava la produzione di sette volte. Fu insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana (cfr. in G. Laviola, Dizionario biobliografico degli Italo-Albanesi, Cosenza, 2006, ad vocem).  

(10)       Ivi.

(11)       G. C. Siciliano, op. cit..

(12)       Ivi

(13)       Domenico A. Cassiano, Strigàri Genesi e sviluppo di una comunità calabro-arbreshe, pp. 163-182, ed. Marco, Lungro, 2004; Guglielmo Tocci, Notizie storiche e documenti relativi ai Comuni di San Giorgio, Vaccarizzo, San Cosmo, Macchia, San Demetrio Appendice alle Due memorie sulle questioni di scioglimento di promiscuità con Acri, pp. 134 e seg., Cosenza, 1865.

(14)       Gaetano Cingari, Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799, ad vocem, Reggio Calabria, 1978.

(15)       Domenico  Cassiano, Processo del 1857ai patrioti di Sam Demetrio…., pp. 5-26, ed. Il Coscile, Castrovillari, 2009.

(16)       D. Cassiano, Il Collegio di San Adriano e il Risorgimento in Calabria, ed. Comune di San Demetrio Corone, 2013.

(17)       Vittorio Cappelli, La rivolta di Plataci (9 novembre 1909), in Immigrati, moschetti e podestà Pagine di storia sociale e politica nell’area del Pollino (1880-1943), pp. 123 e seg., ed. “Il Coscile”, Castrovillari, 1995; Mario Brunetti, La piazza della rivolta microstoria di un paese arbresh in età giolittiana, ed. Rubbettino, 2003.

(18)       Giulio Casalini, Nell’Italia irredenta. Viaggio a Plataci dopo la rivolta in “Avanti!”, 15-19-25 dicembre 1909; v. anche in V. Cappelli, op. cit., pp. 155-168.

(19)       F. Saverio Nitti, Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Calabria e in Basilicata, II, Bari, 1968, pp. 186 e seg..

(20)       L’espressione di Sergi a proposito di Crispi è tratta da Saverio Cilibrizzi, Storia parlamentare politica e diplomatica d’Italia, vol. II, Milano, 1925, pp. 589-590.

(21)       Domenico Cassiano, Fascismo e antifascismo nella Calabria albanese, ed. “Ist. Calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea”(ICSAIC), Cosenza, 2016, pp. 204-205.

(22)       Nino Cortese, Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Napoli,  Libreria scientifica editrice, s.d., pp. 75-76.

(23)       Giovanni Laviola, Dizionario biobibliografico degli italo-albanesi, Cosenza, 2006, ed. Brenner, pag. 23. Anche Girolamo de’ Rada ricorda nella sua autobiografia (ed. Rubbettino, vol, VIII, pag. 116-117), il Basile, già suo “compagno di collegio” in San Adriano, che, il 15 maggio ’48, era “alla testa della giovinaglia, alla quale sovrastava del capo nell’abito maestoso di sacerdote greco, il mio compagno di Collegio traeva a sé fino a sera gli sguardi per le vie che percorrevano”.

(24)       Domenico Cassiano, Storie di minoranze…cit., pp. 192-226.

(25)       Gaetano Cingari, Romanticismo e democrazia nel Mezzogiorno, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1965; D. Cassiano, Domenico Mauro (1812-1873) Letteratura e rivoluzione, ed. Libreria Aurora, Corigliano Calabro, 2015.

(26)       D. Cassiano, Processo dei 1857 ai patrioti…cit., pag. 13.

(27)       Giovanni Laviola, Gennaro Placco. Fiore della prigionia di Settenbrini, Lucca, 1985; L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e scritti autobiografici, Milano, 1961; S. Groppa, Gli italo-albanesi nelle lotte dell’indipendenza, Bari, 1912; D. Cassiano, Risorgimento in Calabria…cit., pp. 207-228.

domenico.cassiano@libero.it

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