di Domenico A. Cassiano

La denominazione degli schieramenti politici in destra, sinistra e centro è assai antica:

data dalla posizione assunta dai deputati nell’Assemblea legislativa francese, dopo la rivoluzione del 1789.

I deputati, che sedevano alla destra dell’Assemblea, oppositori dei princìpii dell’89, erano ovviamente filomonarchici, conservatori, difensori del passato regime;

quelli del centro – che costituivano la cosiddetta Palude – erano d’incerto e ondivago orientamento politico;

quelli della sinistra, divisi in due gruppi, erano decisamente schierati per la difesa e la pratica effettiva di quei famosi princìpii, solennemente consacrati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che era poi il programma effettivo politico e culturale rivoluzionario, condensato nella affermazione della libertà, nel riconoscimento del diritto di uguaglianza, di fraternità e di solidarietà.

Tutto il vecchio armamentario politico, sociale, costituzionale, giuridico, amministrativo del cessato regime di monarchia assoluta era del tutto azzerato e, con esso, era conseguentemente eliminate ed abrogato tutto ciò che era in contrasto con i principii della citata Dichiarazione.

Da allora, la destra divenne sinonimo della conservazione e del privilegio e la sinistra assunse il significato di espressione della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e della parificazione dei cittadini davanti alla legge, senza alcuna distinzione.

I teorici della reazione e della restaurazione non tardarono ad attaccare gli stessi principii fondanti della rivoluzione francese.

Il primo ideologo, che sollevò dubbi, critiche e contestazioni, fu l’inglese E. Burke (1729-1797):

il suo saggio intitolato Riflessioni sulla Rivoluzione francese, pubblicato nel 1790, fu accolto entusiasticamente dai circoli e dagli ambienti conservatori europei, che vi vedevano riflesse ed espresse tutte le loro preoccupazioni e paure per le conseguenze della Rivoluzione;

ben presto assunse la funzione di punto di riferimento ideologico del blocco antirivoluzionario della Restaurazione.

Il Burke, in relazione ai diritti civili, mette in relazione la prassi e la teoria inglese con quanto era avvenuto in Francia, al fine di sottolineare e fare risaltare una presunta superiorità della esperienza inglese, caratterizzata da realismo, concretezza e pragmatismo.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, vero manifesto della Rivoluzione francese, era, invece, a parere del Burke, astratta, astrusa, utopistica, nient’affatto realistica, addirittura inidonea a salvaguardare e garantire la libertà dei cittadini. Ciò perché – sembrava allo scrittore conservatore inglese – che la Rivoluzione, in Francia, era solo ed unicamente generatrice di caos e di disordine sociale “in cui si mescolano leggerezza e ferocia, confusione di delitti e di follie travolti insieme”.

Allora, come oggi, l’esercizio della sovranità popolare doveva evidentemente sembrare solo fonte di confusione e di disorganizzazione politica ed amministrativa.

Il Burke, infatti, prende di punta, per aspramente criticarlo, il principio della sovranità popolare e della democrazia, pietra miliare della Rivoluzione e dello Stato di diritto, assumendo che l’ordine sociale riveste il crisma della divinità perché, nello Stato, è tutto preordinato naturalmente e non può essere rimesso in discussione e sistemato per volere di una maggioranza di popolo.

Nell’organizzazione statale, solo ed esclusivamente al diritto di proprietà, anzi della grande proprietà, è riservato un posto esclusivo, preminente, fuori da ogni e qualsiasi discussione.

Il timore dei conservatori europei, oppositori della Rivoluzione, era quello appunto determinato dal fatto che l’ordinamento democratico, espresso dalla sovranità popolare, avrebbe potuto porre in discussione il “sacro” diritto di proprietà per diversamente regolamentarlo. La massa della popolazione, secondo il Burke, parificabile a “miserabile mandria di pecore”, non conta nulla e, per conseguenza, non possono esserle riconosciute funzioni e prerogative nell’esercizio del potere pubblico. Non era, pertanto, neppure immaginabile o ipotizzabile l’esistenza di uno Stato, la cui sovranità risiedesse solo ed esclusivamente nel popolo. Risorgeva, così, dalle ceneri della storia, per essere divinizzato e sacralizzato dalla reazione antirivoluzionaria e antidemocratica, il modello dello Stato di Sparta, in cui tutti i poteri erano riservati ad un pugno di privilegiati, gli Spartiati, che governavano sulla popolazione e, cioè, la stragrande massa dei cosiddetti Iloti.

Siccome la Rivoluzione si era allontanata da questi principi politici – era la conclusione del Burke – ed anzi li aveva distrutti e sovvertiti, abbandonando la “grande e diritta via della natura”, il nuovo Stato, creato in Francia, non poteva avere che effimera durata, privo di fondamenta.  La maggioranza non è in grado di governare perché, oltretutto, secondo il Burke, “la volontà della maggioranza ed il suo vero interesse sono molto spesso in attrito reciproco; attrito che aumenta in caso di cattive deliberazioni. Un governo che sia composto da cinquecento avvocatucci da villaggio o da altrettanti pretonzoli sconosciuti non saprebbe procurare il bene di ventiquattro milioni di uomini…”.

In conclusione, idonee a governare sono solo le “forze rappresentative della ricchezza e della proprietà privata”, che non governano più in Francia:

“e in conseguenza di questo, essa proprietà è distrutta senza avere dato luogo al sorgere di una giusta e razionale libertà”.

Il savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), autore dell’opera Du Pape (1819), si pone sulla scia del tradizionalismo reazionario del Burke, con una visione della storia come una successione e conservazione di presunti e trascendenti valori religiosi ed etici. L’ordinamento della società è fondato su detti valori religiosi, dei quali è custode solo il Papa che, conseguentemente, è anche supremo regolatore del potere civile. Si tratta, all’evidenza, di una concezione medioevale della fonte e dell’esercizio del potere, che antistoricamente e dogmaticamente ripropone la teocrazia, ignorando tutte le trasformazioni avvenute nei secoli passati e, da ultimo, l’impulso che la cultura europea, razionalismo ed illuminismo, aveva impresso al movimento riformatore.

Nel tentativo di confutare quelle che il de Maistre chiama le “diaboliche stranezze” degli illuministi, tra le quali principalmente quella della libertà naturale dell’uomo, oppone vuote ed astratte espressioni; l’uomo, invece, egli assume, è “naturalmente servo”, liberato solo dal Cristianesimo che ovviamente senza il Papa non può esistere e “non si dà vero Cristianesimo operoso, potente…spettava dunque al Sommo Pontefice proclamare la libertà universale…Egli solo rese questa libertà possibile nella sua qualità di capo unico di quella Religione sola capace di piegare le volontà e che non poteva spiegare tutto il suo potere se non per mezzo di lui”.

Di fronte alla constatazione che “tutte le sovranità in Europa s’indeboliscono” e che “le sètte e lo spirito particolare si moltiplicano in modo spaventevole”, per il de Maistre è necessario il ricorso alle maniere forti: o si provvede a “purificare le volontà o incatenarle; non v’è via di scampo”.

In definitiva, tutt’e due questi metodi teorizzavano l’uso della violenza morale o fisica al fine di arrestare lo sbriciolarsi progressivo delle vecchie strutture del potere politico e lo spaventevole moltiplicarsi dello spirito particolare.

Il de Maistre tuttavia aveva ben capito che non si poteva invertire il corso del processo storico, che era ormai irreversibile. Infatti, nel 1793, confidava ad un amico che il progetto di mettere il lago di Ginevra in bottiglie è molto meno folle di quello di ristabilire le cose proprio nelle stesse basi in cui si trovavano prima della Rivoluzione.

Qualche anno dopo, dalla forza degli avvenimenti era costretto ad ammettere che la Rivoluzione francese segna una grande epoca e le sue conseguenze, in tutti i campi, si faranno sentire ben al di là della sua esplosione e del suo epicentro. Fu facile profeta, ma tuttavia continuò imperterrito nella critica e nell’avversione dei presupposti ideologici dei princìpii dell’89 e del regime liberale.

Gli ideologi della conservazione reazionaria, dopo la Rivoluzione francese e fino ai giorni nostri, hanno avuto, come principale bersaglio delle loro critiche e recriminazioni, i princìpii basilari della democrazia. La parte moderata dei liberali conservatori, pur non mettendo in discussione il regime liberale, non ha desistito dal considerare dannosa e deleteria la pratica della democrazia perché ritenuta come una sorta di anticamera al socialismo:

le grandi masse non erano ritenute idonee alla partecipazione attiva all’esercizio del potere politico. I liberali moderati non erano tuttavia contrari dal riconoscere che singoli elementi “plebei” potessero essere cooptati nei gruppi dirigenti nel momento in cui avessero, attraverso l’istruzione, raggiunto un grado di maturità che li collocava nella classe dirigente e sanciva di fatto la loro ascesa sociale. Si trattava evidentemente di una cauta apertura.

I conservatori estremisti, al contrario, negavano alle masse popolari ogni e qualsiasi funzione di governo, riservata ad una èlite, un gruppo ristretto di persone, che guardava al popolo solo come soggetto passivo del suo potere. Nel corso del XIX secolo, questa impostazione apertamente eversiva e reazionaria si fuse con l’imperialismo, il nazionalismo, il razzismo e l’antiebraismo, rafforzando così la spinta sovversiva ed antidemocratica;

tutti elementi che, nel corso del primo Novecento, finirono col costituire un micidiale miscuglio di violenza, di odio sociale e di bestiale intolleranza.

Il nazionalismo italiano, che poi si fuse col fascismo, incominciò ad organizzarsi intorno al 1903 ed aveva come punto di riferimento le riviste Il Regno e Leonardo, rispettivamente dirette da Enrico Corradini (1865-1931) e da Giovanni Papini (1881-1956);

si ispirava anche alla ideologia reazionaria dell’Action Française ed alla retorica declamatoria e patriottarda di Gabriele D’Annunzio (1863-1938).

Nel 1910 fu tenuto a Firenze il primo congresso del Partito Nazionalista, finanziato dalla grande industria italiana, siderurgica, meccanica e produttrice di armi.

Comuni ai gruppi della Destra furono la radicale avversione alla teoria della sovranità popolare e della democrazia, l’esaltazione delle élites, delle non meglio specificate aristocrazie ed il culto della forza.

Il Regno si autodefiniva nella sua dichiarazione programmatica come “una voce contro la viltà presente. E soprattutto contro quella dell’ignobile socialismo…In luogo d’ogni ordine di idee generose fu posta l’ira dei più bassi istinti  della cupidigia e della distruzione. Tutte le classi furono messe al bando per una sola , e la mercede dei braccianti diventò principio e termine dell’umana società. Le furie del numero furono scatenate contro tutti i valori…”.

Era pensiero comune dei nazionalisti che la lotta di classe avrebbe portato la società alla rovina con il trionfo del volgo e, per questo motivo, era necessario – scrivevano Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini (1882-1982)“risvegliare la classe borghese, per mezzo dell’aristocrazia, per condurla contro la democrazia socialista o semisocialista”;

essi teorizzavano il risveglio di una borghesia con una “coscienza di classe decisa”, con “spiriti aristocratici”, non “guastata dalle malattie del nemico”.

D’altra parte – essi scrivevano in Vecchio e nuovo nazionalismo (Milano, 1914)“non possiamo ancor meno amare l’altra forza operante della nostra vita pubblica, cioè il socialismo, il quale sotto lo sbandieramento del verbo clamoroso, rappresenta ciò che di più basso, di più volgare, di più prepotente c’è nell’animale uomo…il socialismo è insieme, antindividuale e antinazionale, e siccome noi vogliamo lo svolgimento delle individualità per condurle alla resurrezione della patria, così noi siamo in ogni modo, in ogni occasione, in ogni senso contro di lui…”.

A tale evidente miseria culturale va aggiunto il cosiddetto “fascino della guerra”, teorizzato dal citato Corradini e nel Manifesto dei futuristi.

Secondo il Corradini, la guerra ha la virtù di fare emergere ciò che di sano e di genuino è insito nella natura umana e di fare tacere “tutti gli umanitarismi e altri sentimentalismi, tutti i raccapricci e aborrimenti civili…le guerre rispondono mirabilmente allo spirito della nostra età…mai come ora la vita degli uomini e dei popoli ha avuto modo di essere repentina e veloce, irruente e veemente”.

Per questo motivo “i sentimentalisti, gli umanitaristi, gli evangelici dell’amore e della pace, i dottrinari delle classi e delle culture cosmopolitiche, sono addirittura contrari allo spirito del nostro tempo”.

Non meno esplicita è l’esaltazione della guerra nel Manifesto futurista, nel quale si afferma, al punto 9:

“Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore, il disprezzo della donna”.

Tutti questi estremisti della Destra reazionaria erano decisamente contrari alle rivendicazioni popolari, democratiche, alla lotta di classe, nell’errato convincimento che, qualora fosse lasciato che si sviluppassero liberamente, avrebbero portato al trionfo del popolo ed alla distruzione degli ordinamenti civili, alla messa in discussione del diritto di proprietà, evenienza assai temuta dai ristretti gruppi dirigenti.

Bisognava, perciò, ad ogni costo, anche con la violenza e con la forza, fare arrestare il libero sviluppo della dialettica democratica al fine di indirizzarla ad una sorta di “unione sacra” e patriottica, unicamente finalizzata all’espansionismo nazionalistico dell’Italia.

La lotta di classe andava sostituita con la lotta fra le nazioni.

L’Italia era una “nazione proletaria” e, come tale, aveva il diritto di espandersi e di conquistare altre nazioni per sistemarvi il proletariato nazionale, costretto all’emigrazione.

In definitiva, veniva così teorizzata – non si capisce su quali basi concrete, morali e giuridiche – una nazione guerriera, tesa alle conquiste ed all’espansione a danno di altri popoli e con la soppressione e l’assoggettamento di altre nazioni.

Questo  scriteriato e confusionario bagaglio ideologico si fondava essenzialmente su un patriottismo esclusivo e fanatico che, per conseguenza, negava dignità e diritto all’esistenza ad altre nazioni – come nei fatti ha oggettivamente dimostrato la farsesca e tragica esperienza del fascismo -;

si alimentava e si completava, inoltre, con l’uso della violenza e con il ricorso alla guerra, col riconoscimento della supremazia del più forte, con la teoria dello Stato etico, una sorta di ente metafisico che trascendeva ed inglobava le singole individualità.

La conclusione e la sintesi di tutto questo ciarpame retorico e parolaio trovò il suo naturale sbocco nel fascismo, che tuttora continua anche se con mutato nome e con altri insignificanti attori. domenico.cassiano@libero.it

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