di Domenico A. Cassiano

L’intervento pubblico, esplicato direttamente dalla pubblica amministrazione con mezzi ordinari o, in forme diverse, con un’azione straordinaria, non ha azzerato le diseguaglianze fra Nord e Sud che, nel corso dell’ultimo ventennio, sono addirittura aumentate con l’ovvia conseguenza del mancato conseguimento dell’obiettivo finale della unificazione economica del Paese. 

Senza volere ripercorrere le varie fasi di intervento nel processo economico del Mezzogiorno, è opportuno e doveroso constatare che, nell’attualità, le regioni del Nord e quelle del Sud sono contraddistinte da dinamismi economici assai differenziati:

le prime, infatti, caratterizzate da un autonomo sviluppo del settore industriale, hanno conquistato un mercato sempre più largo, al quale ha concorso il massiccio afflusso anche della manodopera meridionale, con l’espansione progressiva dei consumi tanto da fare parlare, ai primi anni sessanta, di un vero e proprio “miracolo economico”;

le seconde, invece, anche a seguito  dell’intervento pubblico invero disarmonico, che ha tentato di alimentare e di fare crescere alcuni poli di sviluppo, non sono riuscite ad acquistare una propria capacità auto-propulsiva in campo industriale in modo da reggersi con le proprie gambe, senza, cioè, l’intervento pubblico.

E, quando questo è cessato, buona parte di quei poli industriali ha condotto vita grama gradualmente ridimensionandosi fino ad arrivare alla definitiva estinzione. In definitiva, l’intervento pubblico nel Mezzogiorno è sostanzialmente fallito perché è mancata una visione nazionale del problema e, quindi, un progetto di programmazione nazionale dello sviluppo economico, delle politiche industriali complessive. Il che vuol dire che progetti settoriali con riferimento a singoli territori, ma staccati dal contesto di sviluppo nazionale, sono destinati al fallimento perché non in grado di dare inizio al necessario sviluppo autonomo.

Ovviamente la cosiddetta autonomia differenziata determinerà l’esaltazione dei localismi, non favorirà una visione nazionale dello sviluppo, mettendo anche in gioco la stessa unità nazionale.  

La tradizionale politica mirante alla costruzione di opere pubbliche (scuole, acquedotti, fognature, ferrovie, porti, ecc.), ha in parte soddisfatto esigenze primarie di civilizzazione;

tuttavia bisogna sottolineare che, pur necessarie, non valgono – esse soltanto – alla soluzione del problema e, cioè, alla eliminazione della esistenza delle due Italie ed alla creazione di quella unificazione economica, che è rimasta ancora, dopo un secolo e più dalla raggiunta unità politica, opera del tutto incompiuta e della quale non si riesce ad intravedere, allo stato, l’esistenza di un pur minimo progetto di volontà di realizzazione. Né i tempi e le modalità di evoluzione della politica nazionale cospirano ad un sia pure cauto ottimismo.

L’ultimo trentennio ha visto il Sud sempre più sprofondare e paurosamente degradare, perdendo progressivamente la propria popolazione e – quel che è più rimarchevole – quel prezioso patrimonio di risorse intellettuali delle giovani generazioni, notoriamente costrette ad espatriare a causa dell’impossibilità oggettiva di potervisi conquistare uno spazio ed un riconoscimento del merito. 

Ma anche il prodotto interno lordo stenta a crescere;

la sua crescita – secondo la linea di tendenza di questi ultimi tempi – non cammina di pari passo con quella delle regioni centrosettentrionali. Sicchè anche il generale tenore di vita e di benessere della popolazione meridionale non è raffrontabile con quello dei cittadini del Centro e del Nord.

La stessa cosa avviene nel godimento dei servizi pubblici, del diritto alla salute, all’istruzione, che la Repubblica è obbligata a garantire in pari misura, in forza della nostra Costituzione, per tutti i cittadini. 

Nel Sud non vi è soltanto un deficit nello sviluppo economico perché ad esso si accompagna il dato oggettivo, di fatto, di una minore possibilità di lavoro, di usufruire dei servizi sanitari efficienti, di adeguate strutture educative, e di avere un reddito confacente ai bisogni fisiologici delle famiglie. 

E’ stato calcolato che mediamente la ricchezza di un cittadino meridionale è, più o meno, pari al 60% di quella degli abitanti del Centro-Nord. Ma notoriamente le statistiche servono a dare un quadro generale:

esse probabilmente non rispecchiano lo stato reale delle famiglie meridionali.

Non si vuole qui trascurare il fatto che, attraverso la Cassa del Mezzogiorno ed anche per altre vie, nel Sud sono confluiti fiumi di denaro che, tuttavia, non tutti sono stati spesi in opere di pubblica necessità ossia per il soddisfacimento di bisogni della collettività. 

A parte il fatto che è mancato un ordinato, razionale e specifico programma di impiego, non poca parte delle somme, erogate dallo Stato, è finita nelle mani di speculatori spregiudicati o addirittura di esponenti di associazioni criminali, che si sono ingrassati col pubblico denaro, a volte purtroppo con la connivenza o con la complicità della politica, alla quale, peraltro, vanno addebitati anche non pochi sprechi, errori, omissioni insieme ad una assai scarsa competenza. 

Occorre comunque considerare che i governi della destra hanno addirittura, di fatto, trascurato e cancellato il Mezzogiorno dall’azione governativa, limitandosi alla elargizione di qualche offa assistenziale al fine di comprarne il voto. Tali governi, sorretti e trascinati dalla spinta della Lega nordista, dichiaratamente secessionista ed anti-meridionalista, oltre che di fatto razzista, hanno notevolmente contribuito ad aggravare e ad aggrovigliare le condizioni del Mezzogiorno, facendolo arretrare col riportarlo indietro nello stato di alcuni decenni fa.

Secondo l’autorevole parere degli studiosi dello Svimez, per arrivare a capo della questione meridionale ossia della reale unificazione del Mezzogiorno al resto della Penisola, sono necessarie “azioni non convenzionali”;

vale a dire una precisa volontà politica governativa che affronti coraggiosamente il problema, mettendo in atto tutte quelle misure straordinarie ed eccezionali del caso e lasciando da parte tutta la retorica e le belle parole fin qui profuse a iosa, che non hanno trovato attuazione nella realtà. 

Ma anche i gruppi dirigenti meridionali debbono seriamente rivedere la loro azione politica e farsi un severo esame di coscienza per lo stato catastrofico ed avvilente in cui è ridotta la pubblica amministrazione del tutto carente e largamente inefficiente.

E’ nel vero, a tale proposito, Sergio Rizzo quando denunzia in un suo scritto (v. la Repubblica del 2.8.2018) che “in Campania l’efficienza della pubblica amministrazione tocca appena il 6% della regione più virtuosa, il Trentino-Alto Adige…Poi si scende al 60 in Sardegna, al 53 in Abruzzo, al 43 in Puglia, al 42 in Basilicata, al 40 in Sicilia e al 39 in Calabria. Dice tutto lo stato di cose della sanità con 33.922 cittadini calabresi e 32.098 campani costretti a trasferirsi al Nord nel 2016 per ricoveri acuti e una percentuale di famiglie impoverite a causa della spesa sanitaria privata, tripla in Campania rispetto alla media italiana”.

Che dire, inoltre, dei fondi europei che non sono adeguatamente utilizzati o non sono a volte utilizzati per nulla per carenze nei progetti o per incapacità ed incompetenza di un personale burocratico, sprovvisto di adeguati titoli di studio se non addirittura privo di laurea, assunto per ragioni clientelari attraverso concorsi che non premiano il merito, ma solo la fedeltà partitica o di fazione?

Sembrerebbe essere ritornati al tempo del regime borbonico durante il quale l’esercizio delle funzioni pubbliche solitamente era conferito solo in rapporto al grado di “fedeltà” al regime. Nell’attualità, poi, – e non è inutile sottolinearlo – con leghisti e neofascisti al potere, che è quanto di peggio espresso da un popolo, che sembra avere smarrito la memoria storica, è veramente difficile aspettarsi un reale rinnovamento. redazione@altrepagine.it

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