di Domenico A. Cassiano

Leggendo “Mbusati” di Domenico Cerrigone (ed. Trisauro, Altomonte, 2010), il pensiero corre allo scritto di Gustavo Meyer del 1885, apparso sulla Nuova Antologia, in cui si evidenziava l’esistenza di “una animata vita intellettuale” nella minoranza linguistica arbreshe, la cui “classe colta prende viva parte allo sviluppo politico e letterario della patria italiana…senza per questo sentire meno profondamente l’affetto per la loro nazionalità”.

La constatazione dello studioso tedesco resta attuale. Ancora oggi persiste una consistente vivacità intellettuale, che si manifesta attraverso le numerose pubblicazioni di opere di poesia, di prosa, di saggi filologici, storici e di letteratura che, sotto certi aspetti, fanno capo alla cattedra di letteratura albanese nell’Università della Calabria, diretta dal Prof Franco Altimari.

Gli Arbresh conservano il culto e la memoria storica di tre patrie: quella italiana, nella quale sono integrati ed alla cui cultura appartengono; l’antica patria, dalla quale sono emigrati oltre cinquecento anni addietro, che è come una patria poetica e di sogno, ricordata nostalgicamente nel canto popolare della bella Morea, non più veduta da quando è stata lasciata con le memorie più sacre; l’Arberia, fatta di tanti paesi, sparsi soprattutto alla destra ed alla sinistra del Crati, che costituiscono una sorta di minipatria culturale, un rifugio dell’anima, di cui si avverte il bisogno proprio nell’attuale momento storico in cui sembrano smarriti i valori fondamentali della vita, sommersi dall’egoismo, dal materialismo e dalla intolleranza per il diverso.

Cerrigone, discreto e defilato, con la sua scrittura domestica, riflessiva e, a volte, ironica, non si propone di affrontare i grandi problemi esistenziali, ma – più modestamente, epperò con maestria – interpreta il quotidiano. Lascia che altri cantino cose maggiori,* Io preferisco di gran lunga queste* che potremmo definire lievi,* per nulla speciali, del tutto ordinarie – recita il primo canto. E, tra le “cose ordinarie”, non trascura di porre in primo piano la sopravvivenza della lingua arbreshe, che è “la speranza più cara”: Quando verrà l’anno Duemilacinquecento, vorrei che molta gente parlasse ancora l’arbresh.* Compirebbe, allora, mille anni l’Arberia* in questa terra benedetta, chiamata Italia.*

E’ il bisogno di ancorarsi alle radici, a quella minipatria culturale, che rappresenta l’appropriazione della identità ed entro la quale sopravvivono ancora i valori umani della socialità, della solidarietà e dell’amicizia; bisogno che si impone con urgenza nell’attuale momento storico in cui la mercificazione detta le sue regole micidiali determinando l’annichilimento degli autentici legami umani, che, poi, altro non sono che valori comunitari e che costituiscono le radici della vita dell’uomo.

Si può agevolmente constatare che l’organizzazione capitalistica e classista della società ha progressivamente distrutto il vecchio tessuto sociale senza nulla sostituirvi ed, anzi, facendo emergere dei simboli altamente negativi: i ghetti – reali e figurati – negli insediamenti umani ed una crudele e grande solitudine. Reale è il fenomeno delle folle solitarie; l’uomo è solo nel lavoro e perfino nel divertimento. La poesia di Cerrigone ci aiuta a intravedere la possibilità di un mondo diverso, di una vita più umana, opponendo alla cupezza della solitudine il calore umano, la solidarietà e la spontaneità dello svolgersi della vita nella comunità arbreshe che ancora resiste, nonostante gli attacchi e nel cui seno – per dirla con un filosofo che non sembra più di moda, K. Marx – l’individuo non è “agito” e non è costretto a reificarsi, diventando oggetto interscambiabile.

Mbusati, la minipatria di Cerrigone, posta “su tre colli rocciosi”, circondata da vigne, da orti e da oliveti “con verdi foglie” che “rallegrano i campi d’inverno e d’estate”, trasmette attraverso la poesia una particolare serenità di spirito, che concilia l’individuo con la natura. Anche gli elementi naturali, vento, pioggia, diventano poesia.

Cerrigone riesce a dissimulare la sua cultura classica raffinata; con un dettato semplice e piano rende liricamente delicate sensazioni: Soffia il vento nel balcone* e si lamenta come un bambino…Anche di notte continua il lamento, io e la lampada restiamo svegli,* ma, passando le ore,* il vento angosciante diventa melodia* e piano piano mi acquieta la mente.*

Naturalmente, nella traduzione italiana, il verso perde parte della sua fruibilità.
Plagosus Orbilius ricorda il vecchio maestro oraziano, distributore di busse. Quello del Cerrigone, però, “era un signore” ed “insegnava alla maniera antica”; il suo insegnamento era assai efficace e gli alunni erano posti in grado di profittarne. A differenza di oggi, il maestro era “onorato” e godeva di una sorta di “alone magico”.

Cerrigone non è un acritico lodatore del tempo passato. I suoi versi, con disarmante familiarità e con andamento narrativo, non trascurano dall’evidenziare le fatiche, le ingiustizie, le discriminazioni, l’emarginazione, le aspettative e l’ansia impotente di rinnovamento, che attraversavano la civiltà contadina. Il suo antenato, Girolamo, era solo un proletario e socialista che, al declinare dell’Ottocento, gridava inutilmente la sua protesta e tutta la sua rabbia: Son povero, ma ho intelligenza,* ho mente e istruzione.* I signori stanno bene, ballano e mangiano* e il re ci costringe alla fame.* Io son contadino e lavoro la terra,* ma ho il cuore aperto agli altri.*

Nel suo podere, a Lalemeni, ha costruito con l’aiuto dei figli, nel 1898, a sollievo della sete di quanti vi transitavano per recarsi a Corigliano, una fontana scolpendovi sulla pietra “Girolamo Cerrigone prolletario (!) colla marra e il piccone al publico (!) fece – 1898”, quasi a volere sottolineare e gridare la sua condizione di proletario generoso e di socialista, pensoso del bene comune, che aveva offerto gratuitamente al pubblico dei proletari che vi transitavano non solo la possibilità di dissetarsi, ma anche di “sedervi e mangiare,* e potete lavarvi anche il viso, prima di ripartire.* E perché non diceste che ho solo scolpito la pietra,* ho fatto anche l’abbeveratoio per l’asino.* Un cuore e un fiore sono in alto, sulla fontana,* perché l’opera che ho fatto mi ha riempito la vita.*

Molte volte, i poeti dicono più degli storici. La composizione poetica surriferita – vero e proprio poemetto – lascia intuire realisticamente uno scorcio di vita contadina con i suoi viaggi faticosi a dorso di mulo o di asino, l’esistenza di strade di comunicazione esclusivamente pedonali, la penetrazione tra gli strati popolari del socialismo, visto e praticato nel suo aspetto di solidarietà, di fraternità e, occorrendo, di sacrificio per il bene comune. Tema ripreso nel brano sul “Sindaco socialista”, Pietro Cataldo, “mai sconfitto da alcuna lista” nell’arco di un trentennio, “che, in un paese povero,* seppe risolvere tutto e dirigere* tanto bene che l’ha cambiato così* e che “non volle neanche una penna.* Quando uscì dal Comune,* tolse la penna dal taschino* e disse:”prendetela, l’avevo dimenticata”,* e la restituì e se ne andò…niente volle, prese o ricevette.

Nella poesia Ushtar (Il soldato), con tono delicato e commosso, ma sempre piano e familiare, si avverte l’eco dei lutti e delle tragedie che si sono abbattute nella comunità sangiorgese per la perdita di tanti giovani, ignari di andare incontro alla morte nel deserto dell’Africa:

“Un giovane di paese e contadino,* è andato in guerra, ma non fu vincitore;…L’onore al soldato il fato ha negato: la sabbia con il vento s’è alzata e l’ha coperto per sempre.
L’emigrazione transoceanica è oggetto del poemetto che ha, per protagonista, Santo che, “giovane e neosposo, soltanto all’America poteva affidarsi” per fare un po’ di denaro. Dopo tante peripezie burocratiche per preparare carte e documenti vari, finalmente potè “salire sul bastimento”, da dove saluta parenti, amici, il paese ed il podere, che lasciava, speranzoso che finalmente avrebbe potuto mangiare e bere col proprio lavoro e “non come a Ghinetta,* dove lavoravo giorno e notte,* senza speranza d’esser mai ricco.* Già nel bastimento e prima di arrivare a destinazione, sognava d’essere diventato ricco e pensava al ritorno in S. Giorgio col “sigaro in bocca, con bretelle e cappello a larghe tese” come un “mericano”. Santo “all’America diede salute e giovinezza; tutto quello che realizzò fu una casa”: Mbusati ebbe dall’America solo una casa,* in cambio di un figlio, perduto dalla famiglia..*

L’opera del Cerrigone, significativamente intitolata Mbusati – denominazione arbreshe di S. Giorgio – è, nel complesso, il poema della vita comunitaria del paese, con le sue credenze, i suoi santi, le sue consuetudini, i suoi personaggi caratteristici, i suoi problemi, la sua cultura, anche se non vi manca qualche tratto di pura liricità, espressa in modo semplice, plastico e accattivante. L’opera – originale e di piacevole lettura – è sicuramente degna di occupare un posto duraturo nella storia letteraria dell’Arberia a fianco dei nuovi scrittori e poeti, come Carmelo Candreva, Vincenzo Belmonte, Pietro Napoletano, Vorea Uiko, Pino Cacozza, Katia Zuccaio, Giuseppe Schirò di Maggio. domenico.cassiano@libero.it

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