Alla base delle ulteriori discussioni, del dopo Veglia di Preghiera in Basilica-Cattedrale, riguardanti sempre i riti della Settimana Santa a Cassano Jonio, si percepisce, in maniera netta, la rottura fra l’antropologia e l’etica, contrassegnata da quel relativismo morale secondo il quale si valorizza l’atto umano, non in riferimento a principi permanenti e oggettivi, propri della natura creata da Dio, ma conformemente a una riflessione meramente soggettiva frutto di una logica perversa che nasce da un religiosità che si riduce ad essere più narcotico che respiro, più vincolo che libertà, più paura che fede pasquale.
In tale scenario, il passaggio del Padre per le strade dell’uomo diventa impercettibile se l’uomo – come in questa triste vicenda – è distratto proprio da ciò che dovrebbe meglio orientarlo.
Pertanto, in un contesto come il nostro, la passione per la verità, per l’onestà intellettuale e morale e per la conversione genuina che – monsignor Francesco Savino sa irradiare – comportano sempre un grande prezzo da pagare.
È “soltanto nel pieno essere-in-questo-mondo della vita s’impara a credere” scriveva D. Bonhoeffer, in una lettera del 21 luglio 1944.
La sconcertante protesta di queste ore alimentata da una minoranza sparuta – e non dall’intero popolo cassanese che si sforza, sotto la guida illuminata del suo Pastore, a vivere l’adultità della fede – che in nome di un concetto di “tradizione” obeso e depresso, approcciato tra l’altro con un’ermeneutica del declino, direbbe Gadamer, e che non ha nulla a che vedere con la storia della tradizione teologicamente intesa, mi fa sperimentare la verità dell’affermazione del grande teologo protestante (Esorto ad “Intus legere” il concetto di “Tradizione” e suggerisco pure il testo: Walter Kasper, Teologia e chiesa, Queriniana, Brescia 1989, pp. 74-99).
Scrive Antonio Cavallaro “Qui non è in gioco solo l’orario di una Processione, qui non si è saputo (spero non volutamente) tener conto del significato profondo che le modalità di questa manifestazione religiosa hanno avuto ed hanno ancora per tutti i cassanesi, sia quelli che praticano regolarmente i Sacramenti e sia quelli che non mettono mai piede in chiesa”.
Il signore dell’articolo dovrebbe cogliere dalla fenomenologia esperienziale che essere pastore – per Savino – significa non addormentarsi nel Getsemani ma vegliare con Cristo e prendere sul serio le sofferenze che il mondo ci procura, affrontando, insieme alla croce del Golgota, anche l’interminabile “Venerdì Santo” della storia, con la certezza segreta che nasce dall’annuncio di Pasqua: “nella sofferenza si cela la nostra gioia e nella morte la nostra redenzione”.
Osservava alcuni anni fa Harvey Cox, teologo statunitense e maggior rappresentante delle teologie della secolarizzazione: “in una società orientata verso il successo e il denaro, urge il bisogno di una rinascita della festività chiaramente improduttiva e della celebrazione espressiva” (H. Cox, La festa dei folli: saggio teologico sulla festività e la fantasia, Bompiani, 1971, 26).
Il Can. 375 – §1 del CJC dice: “I Vescovi, che per divina istituzione sono successori degli Apostoli, mediante lo Spirito Santo che è stato loro donato, sono costituiti Pastori nella Chiesa, perché siano anch’essi maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto e ministri del governo”.
Assunto pastoralmente e tradotto ecclesiologicamente questo articolo del CJC ci dice che il vescovo è colui che “rende presente in novità ciò che ci è stato tramandato”.
Savino ha colto, col senso del pastore e l’occhio delle fede – e soprattutto in sinfonia sinodale coi suoi presbiteri, diaconi permanenti ed anche con taluni laici di provata fede cristiana – che alcuni riti con l’illusoria verniciatura cristiana possono esprimersi in forme tipiche di una società depressa o chiuderci in un mondo sacrale poco genuino. Una religione fatta di riti senza vita, di tradizionalismi senza futuro, di compensazione emotiva anziché di liberazione interiore e storica, purtroppo chiude a Dio e non apre all’uomo.
Non convincono i numerosi tentativi di recupero dei livelli tradizionali, spesso dettati soltanto dalla moda consumistica.
“La festa [in Calabria] ha contenuti di mentalità e di cultura con incrostazioni secolari. Nostro compito è salvarla. Occorre un’educazione generale e costante. Per certi abusi e degenerazioni si impongono anche coraggiose decisioni” (G. Agostino, Le feste religiose nel Sud. Lettera pastorale per la quaresima 1976, Crotone 1976, 10).
Max Weber, uno dei padri fondatori della sociologia moderna in Economia e società vol. I – Teoria delle categorie sociologiche, asserisce che esistono due grandi orientamenti nel campo della tradizione: uno di tipo meccanico, uno di tipo cognitivo. Da una tradizione vissuta in maniera puramente meccanica scaturisce un’appartenenza espressa in termini acritici («così si è sempre fatto», «così fanno tutti»); una tradizione nella quale ci si inserisce in maniera cognitiva, invece, ha in sé un contenuto da trasmettere e da tramandare.
Allora, approcciata in modo cognitivo – ed è questo l’orientamento ermeneutico del vescovo –, quindi non è ripetizione di parole e di gesti, ma è “trasmissione” di vita.
Appunto perché la religione popolare si colloca nella linea di una tradizione di rapporto con Dio e il suo mondo (i Santi, la Madonna, gli Angeli) che si è formata storicamente, nell’intreccio tra azione pastorale e inculturazione del cristianesimo, si rileva spesso in essa uno scarto temporale, una divaricazione cronologica, tra il comportamento o la pratica trasmessa e le graduali modificazioni della coscienza ecclesiale e anche i mutamenti degli indirizzi pastorali.
Cavallaro – il neologismo “sinodalità” contestato nell’articolo – per la Chiesa di Savino non indica solo un metodo operativo, ma è dimensione costitutiva del suo magistero ecclesiologico; e ancora, si legge vescovo senza popolo! Savino è “Vescovo fatto popolo” che non disdegna di mettere in gioco la vita per la sua gente. La sua ecclesiologia batte la via della Pasqua ed è cammino aperto a novità, a giustizia, alla redenzione dell’uomo, al superamento di tanti blocchi ambientali, allo svincolamento da tante dipendenze quali mafia, usura, familismo bloccante, clientelismo nella politica, assenteismo nel sociale. Savino, in sintesi, sogna una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità.
Mi perdoni, ma certe affermazioni, prive di fondamento, sanno di solipsismo auto-esibizionista, di intonazione precaria, oltretutto.
Il Signore, che lo ha posto a capo della nostra Chiesa di Cassano Jonio, non solo “per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere… ma anche per edificare e piantare…” (Ger 1,10) lo ha spinto a darci degli Orientamenti perché le feste siano espresse in verità, purificate nelle loro degenerazioni e recuperate nella loro autenticità.
E, lo spostamento di orario, unica ed esclusiva modifica – suggerita non subita da tutti i presbiteri firmatari della lettera – apportata alla processione del Venerdì Santo, non solo meglio sintonizza i riti all’accadimento del Golgota, attualizzando un ri-centramento liturgico, che riprendendo il vocabolario di Crispino Valenziano ci fa dire che “la pietà popolare sta alla liturgia come l’homo ritualis sta all’homo liturgicus”, ma rientra nel recupero della festa cristianamente orientata e ci aiuta ad uscire da una religiosità culturale che si ferma al visibile, all’immagine e non entra nello spirito e nella vita e, non divenendo espressione genuinamente sacramentale rischia di esprimere una fede esiliata, dispersa, mondanizzata, impoverita della sua carica profetica, salvifica, liberante.
La fede, come ci insegna monsignor Savino, spronandoci a superare astrattezze ed intellettualismi, non è un’idea. Non è credere ad una dottrina, ad una scienza. E non è, tantomeno, un mero prodotto della nostra mente.
Sappia Cavallaro che ogni epoca e ogni sana teologia che fanno storia non rincorrono l’emotivo con revivals di tradizionalismi, ma tendono a realizzare ed esprimere il cristianesimo in modo sempre nuovo.
Savino è convinto che una religione troppo consolatoria rispetto al dolore e ai disagi sofferti da tutti, ci imprigiona nel mistero tenebroso del Venerdì Santo, e non facendoci apprezzare la luce della risurrezione, ci costringe a vivere nel vittimismo lamentoso. In questo senso, la via aperta da Savino altro non è che pedagogia di evangelizzazione.
La festa, infatti, secondo Savino, come fenomeno umano è sociologicamente un’esperienza di partecipazione e chi la vive con spirito di fede, deve abbandonare ogni tendenza all’appropriazione individuale e agli esclusivismi arbitrari.
In appendice all’articolo di Cavallaro trovo addirittura affibbiata a Savino un’anemia di paternità episcopale. Mi perdoni Cavallaro, ma senza voler essere enfatico o retorico sento di dire che appena penso alla paternità di Savino immediatamente la mia mente si trova dinanzi, come ingranditi a caratteri cubitali, i cap. 6 e 7 del Vangelo di Matteo che costituiscono la “Magna charta” della paternità di Dio.
Il suo essere Padre attinge la sua genialità, ancora alla icastica definizione Giovannea di Dio, “come amore”, e l’estrinsecazione pastorale di questa paternità avviene alla luce di una fenomenologia ontologica che ci mostra che cos’è l’amore nell’esperienza umana e che Dio non può non essere amore. Come si può mettere in discussione il senso della paternità in un uomo e pastore che è in grado di trasformare ontologicamente “pietre scartate da costruttori in testaste d’angolo”.
Concludo, con la convinzione nel cuore, che non sarà certo l’esuberanza immotivata di un articolo fuorviante che contiene deviazione rischiosamente idolatre o la Lettera a Barbara D’Urso o la petizione con raccolta di firme da inviare addirittura al Santo Padre – a scalfire l’identità umana e spirituale di monsignor Savino la quale è ritratta dalla sua stessa azione di pastore e di uomo lontano mille miglia da logiche bieche di nepotismo, affarismi di vario genere, inciuci con il mondo politico-malavitoso, ma dedito alla predicazione e alla cura pastorale dei credenti e attento alle istanze della società odierna cui bisogna solo annunciare il Vangelo non secondo logiche di accomodamento, ma con l’intelligenza della fede e la testimonianza della vita sempre avvolta dalla consapevolezza del limite, che mi inducono a concludere che in lui ha sempre agito e agisce il Signore.