di Domenico A. Cassiano

Nel 1861, in qualità di delegato del Prefetto-Commissario Ripartitore, Guglielmo Tocci (leggi QUI chi era) procedette alla verifica del demanio comunale di Corigliano Calabro ed alla successiva ripartizione di “alcuni demani non controversi”, che furono quotizzati ed assegnati a 607 famiglie, per “sedare i malumori del momento, contentando i più bisognosi”.

Ma rimasero insoddisfatti e delusi altri 1500 richiedenti, ai quali si promise l’assegnazione di una quota “colla seconda ripartizione definitiva dopo l’avvenuta reintegra” del Comune dei terreni demaniali, occupati da privati.

Le aspettative durarono circa tre lustri perché i proprietari di Corigliano – che avrebbero dovuto restituire le terre pubbliche usurpate  – proposero ricorso alla Corte di Appello di Catanzaro, che lo rigettò con sentenza del 16 agosto 1875, confermando la decisione del Prefetto e le operazioni di verifica. Si trattava, quindi, di dare esecuzione alla sentenza e di completare le operazioni di ripartizione delle terre demaniali; cosa che avrebbe avuto come conseguenza – scrive il Tocci nella Relazione sulla questione dei demani comunali di Corigliano Calabro – “degli spostamenti di interessi molto gravi…perché…talune famiglie si sarebbero ridotte a dure necessità finanziarie ed altre, che erano lontanissime dal pericolo di soffrire angustie per questa perdita, avrebbero, però, pur esse sofferto in taluni fondi gravi danni per lo sfregio e smembramento delle colture”.

Gli usurpatori impugnarono la sentenza davanti alla Corte di Cassazione e, contemporaneamente, presentarono istanze al Prefetto ed al Comune, in forza di una norma di legge che li facultava a chiedere la transazione della lite con l’obbligo di pagare un canone per le terre occupate. Fu a questo punto che il Prefetto di Cosenza, con sua nota del 5 novembre 1875, al fine di espletare il tentativo di conciliazione, incaricò il Tocci, allora deputato. Nel successivo febbraio 1876, l’On. Tocci  si recò in Corigliano e – scrive – “dopo studi, scambi di corrispondenza, conferenze tenute in diverse volte sul luogo coi rappresentanti del Comune e con gli interessati; pratiche che sorpassarono la durata di un anno, interrotte da altre mie occupazioni e dalla crisi politica ultima, alla quale io avevo parte, ho compiuto il mio lavoro”.

Non parve al Tocci che fosse giusto ed equo accettare la proposta di transazione, avanzata dagli usurpatori, i quali chiedevano di continuare nel possesso delle terre obbligandosi solo al pagamento di un canone annuo, “perché si sarebbero offese le ragioni dei cittadini…che hanno diritto per legge alle terre di natura demaniale”. D’altra parte, neppure voleva fare correre al Comune il rischio di una lunga e dispendiosa lite col conseguente protrarsi della questione demaniale. Propose al Consiglio Comunale – che doveva essere sentito – di deliberare “sopra la conciliazione domandata dalle parti, indicando i limiti entro i quali si dovesse convenire senza pregiudizio sia del Comune sia dei cittadini”.

Il Consiglio Comunale – espressione del ristretto ceto delle classi abbienti – deliberò ad unanimità di dividere in due categorie i detentori delle terre comunali. La prima composta di soli tre grossi proprietari terrieri:

gli eredi Sollazzi, il barone Compagna ed i fratelli Morgia, “che complessivamente rappresentano sul catasto circa la metà dell’imponibile dell’intero territorio di Corigliano, che è di 400 mila lire, e che rappresentano i quattro quinti del valore controverso di questa causa demaniale. Imperocché l’estensione di tutte le terre controverse è di tomolate 1500 circa e, di queste, circa 1300 controverse con loro”. La seconda composta dai detentori delle restanti 200 tomolate, che rappresentavano appena un quinto di tutto il valore della causa.

Per questi ultimi la discussione del Consiglio Comunale – riunitosi nei giorni 3, 5, 6 marzo  e 26, 27 aprile 1876 – fu sbrigativa:

si deliberò di lasciare le terre ai detentori con l’obbligo del pagamento di un canone annuo, delle spese di lite e di cinque annualità di frutti percepiti. Si fecero due eccezioni:

una per Bombini Alessandro, al quale si imponeva l’aumento di cinque lire del canone annuo, “avuto riguardo alla sua condizione speciale di fortuna e di famiglia che lo faceva distinguere dagli altri della stessa classe”; l’altra per tale Grispino, che doveva lasciare dieci moggiate al demanio comunale, considerato che l’estensione delle terre possedute era superiore alle quote che egli aveva acquistato dai vecchi concessionari.

La proposta di transazione consiliare fu più articolata – ed, in definitiva, più favorevole – per i grandi proprietari terrieri, che avevano usurpato e detenevano la stragrande maggioranza del demanio comunale. Venne presa in esame, per prima, l’istanza di conciliazione dei fratelli Morgia. Si scontrarono due differenti opinioni. Una parte dei consiglieri sosteneva di lasciare tutte le terre demaniali occupate ai Morgia ed agli altri col semplice corrispettivo del pagamento del canone annuale “perché il canone che avrebbe potuto imporsi ai possidenti in causa sarebbe stato sempre maggiore di quello che poteva esigersi dai proletari, ai quali sarebbero state concesse le terre; perché offrirebbe molto maggiore facilità e sicurezza di esazione, che può in certi casi rendersi difficoltosa, quando si ha a che fare con quotisti poveri”.

L’altra parte dei consiglieri – che riuscì a fare approvare la propria proposta con lieve maggioranza – sosteneva di lasciare agli occupatori la metà delle terre con un canone pari alla metà del loro valore venale, imporre loro il rilascio dell’altra metà da dividere ed assegnare ai non abbienti, in considerazione del fatto che, contestualmente, si impinguavano le casse comunali con nuove entrate e si tutelavano gli interessi “dei non abbienti e dei cittadini in generale, aventi diritto a terre comunali perché il Comune doveva essere per i cittadini e non questi per quello”.

Quando il 5 marzo 1876 si passò alla discussione della questione Sollazzi, il criterio fu stravolto. I signori Sollazzi erano stati condannati a rilasciare al demanio comunale – per la successiva assegnazione a singoli quotisti “proletari” – circa 600 tomolate, di cui 379 e 2/8 per la quota spettante al Comune sui demani ex-feudali ed ecclesiastici delle località Giosafat e Marinetti, sui quali, peraltro, la Commissione feudale aveva riconosciuto il diritto all’uso civico da parte dei cittadini di Corigliano; 143 tomolate e 2/8 provenienti dalle quote illegalmente acquistate ed altre 71 tomolate per le eccedenze verificatesi in queste ultime quote.

Il Consiglio Comunale deliberò di lasciare ai Sollazzi tutte le terre occupate “col canone da stabilirsi secondo i precedenti”, cioè, con la riduzione a metà sul valore dei fondi Giosafat e Marinetti, col solo obbligo delle restituzione delle 71 tomolate, ufficialmente usurpate. Così, rileva il Tocci, fu “adottato il principio di rilasciare ai possessori attuali tutte le terre, qualunque sia la loro natura, meno le usurpazioni” (ufficiali e riconosciute).

Naturalmente i Morgia subissarono di istanze il Consiglio Comunale per avere il riconoscimento dello stesso trattamento dei Sollazzi, che venne loro riconosciuto come lo fu successivamente per il barone Compagna. “Ed è tutta questa – conclude malinconicamente il Tocci – la materia contenziosa degli affari demaniali del Comune di Corigliano”, non tralasciando dal sottolineare che altra avrebbe dovuto essere la soluzione per venire incontro ai bisogni dei contadini nullatenenti.

Questo soprattutto in un Comune come Corigliano, dove – rileva il Tocci – “siamo ancora troppo lontani dal vedere soddisfatto questo bisogno di terre pei cittadini…E vi è tale brama di terre presso questi cittadini, che non può ritenersi esagerazione se si dice che assediano il Municipio, pronti a dimostrazioni e sommosse popolari in ogni occasione favorevole. Parrebbe che le lotte secolari e sanguinose tra l’ex- barone del feudo e i cittadini continuino in quelle dei cittadini col Comune, che successe al barone nel possesso del demanio soggetto agli usi civici. Quindi – è la conclusione del Tocci – se il Comune cede per canoni tutte le terre agli interessati deve trovare modo di soddisfare i bisogni di terre che hanno i particolari cittadini”.

Evidenzia il Tocci al Prefetto, con forte sottolineatura, la necessità di procedere alla quotizzazione ed assegnazione delle terre pubbliche, richieste dallo sviluppo e dal progresso dell’agricoltura e dalle “speciali condizioni sociali del Comune di Corigliano, dove la grande coltura, la grande proprietà sta in troppo diseguali sproporzioni colla piccola coltura e colla piccola proprietà; perché a Corigliano dai grandi latifondi, i più speciosi certo della Provincia, si discende con una scala troppo rapida, e senza una lunga serie di quelle gradazioni intermedie che formano altrove la scala delle graduazioni sociali, ai 1575 capi di famiglia che nel primo accertamento fatto della ricchezza mobiliare imponibile si trovarono ad introitare meno di 250 lire annue in tutto, compreso il lavoro delle proprie braccia; e quindi soggetti alla sola tassa fissa di lire due secondo la legge di allora”.

Nessuna cosa, inoltre, può rappresentare meglio e più fedelmente le condizioni economiche della popolazione coriglianese e lo stato della proprietà fondiaria che i ruoli dell’imposta fondiaria ed il catasto. Nel 1865, il numero delle famiglie, secondo il registro della popolazione, è di 2.763, delle quali solo 800 possiedono fondi rustici, 1.883 non ne possiedono e – secondo i calcoli del Tocci –  ben 1.205 nuclei familiari sono assolutamente nullatenenti. Da qui la necessità di una nuova ripartizione delle terre pubbliche anche al fine di “promuovere accanto alla grande, la piccola coltura e la piccola proprietà”.

Si rende perfettamente conto il Tocci che solo attraverso “questo provvedimento radicale, la popolazione di Corigliano avrà tutti i benefici della eversione della feudalità, che non furono ancora del tutto realizzati per i cittadini singoli, i quali, anzi sotto certi rispetti e in certi casi potrebbe dirsi che avessero peggiorato, nel senso che nello stato attuale l’Ente Comune può negare loro di coltivare quel pezzo di terra, da cui non poteva escluderli l’antico barone”. Ma soprattutto la trasformazione della proprietà collettiva in quella individuale, “mettendo in movimento tanta proprietà, rimasta stagnante”, è suscettibile di dare “un grosso impulso alla prosperità economica” a beneficio di tutta la popolazione, che non sarà più composta di due sole classi  – come andava scrivendo in quel tempo il Padula – “ di uomini che succiano gli uomini, e di uomini che succiano la terra, e se un pittore pingesse i primi attaccati con l’avide labbra alle vene giugulari dei secondi, ed i secondi attaccati con la bocca insanguinata alle zolle della terra, farebbe un quadro di cui Satana stesso fremerebbe”.

Le cose presero una piega diversa da quella auspicata dal Tocci e fatta presente, attraverso il Prefetto di Cosenza, allo stesso governo nazionale. I successivi sviluppi inequivocabilmente dimostrarono – e non solo a Corigliano ed in Calabria – che le quotizzazioni non sortirono gli esiti, voluti dalle leggi, ma ebbero l’effetto contrario e finirono nell’esclusivo vantaggio delle classi, già economicamente elevate. Pasquale Villari era stato facile profeta scrivendo, agli inizi delle operazioni di conciliazione delle usurpazioni e di quotizzazione, che il popolo ne avrebbe ricevuto qualche beneficio momentaneo, sempre tuttavia inferiore alle attese, ma che, oppresso e costretto dalla povertà, avrebbe venduto i fondi “ai più ricchi e la proprietà ripartita sarà nuovamente cumulata”. Il che è puntualmente accaduto. Anche nel caso di Corigliano, dove la grande proprietà fondiaria, frazionata dalle leggi eversive della feudalità, sarà ricomposta nelle mani di quello “speculatore ardito”, che fu il barone Compagna. domenico.cassiano@libero.it

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