Le prime forme di malavita organizzata, le indagini frettolose e fallaci dei carabinieri e la sentenza dell’allora Corte d’Assise rossanese a seguito d’un omicidio di quasi un secolo fa

Quella cunetta di Via Margherita, alla fine del rione “dei Pignatari” e alle porte del centro storico coriglianese di Corigliano-Rossano.

È mattino presto quando qualcuno che passa da lì, sporgendosi un attimo con lo sguardo, vi scorge un cadavere. È il corpo d’un uomo. In men che non si dica si forma un capannello di gente e qualcuno l’ha già riconosciuto, quel morto. È Francesco Groccia, un ubriacone assiduo frequentatore di cantine e vizioso avventore di casini.

Arrivano i carabinieri, che chiamano un medico legale. Dall’esame necroscopico esterno, dal posto in cui Groccia è stato trovato, dalle notizie raccolte sulle abitudini del morto stesso e dall’autopsia, investigatori e periti sono concordi a stabilire che la morte è stata causata dalla caduta accidentale della vittima dal muretto che sovrasta la cunetta. E il caso e bell’e chiuso.

È il 16 giugno del 1930 e siamo in pieno regime fascista.

Qualche mese dopo, però, e nel corso di un’altra indagine, gli stessi carabinieri s’imbattono in ben altra verità. La verità vera sulla morte di Groccia. Vale a dire che egli era stato, invece, ammazzato. Già.

Ma su cosa stavano indagando i militari dell’Arma coriglianese?

È presto detto. In quella seconda metà del ’30, infatti, s’ipotizzava che a Corigliano si fosse formata un’associazione a delinquere. E fu proprio nel corso di quelle loro investigazioni che i carabinieri vennero informati da alcune fonti confidenziali che Groccia mesi addietro era stato ucciso. Circostanza singolare era che, tranne i carabinieri, praticamente tutti in paese “sapevano” e sussurravano, sin da quel 16 giugno, com’era morto Groccia, chi l’aveva ammazzato e perché.

L’ucciso, nel pomeriggio del giorno precedente il rinvenimento del suo cadavere, era stato nella dirimpettaia zona del rione San Domenico, nel bordello di proprietà di Giuseppe Albanese, originario di Scilla nell’attuale provincia di Reggio Calabria, condotto da Teresa La Grotteria, cognata dello stesso Albanese. Quel pomeriggio, mentre Groccia faceva sesso con una prostituta che di cognome faceva Santoro, un’altra prostituta di nome Maria avrebbe notato che Groccia teneva nel portafoglio molto denaro. Un’altra prostituta di nome Grazia ma soprannominata “Pupetta”, aveva poi saputo che nel casino attribuivano la morte di Groccia proprio alla mano di Albanese e d’alcuni suoi compari.

Da lì scattano le nuove e stavolta approfondite indagini. Dalle dettagliate dichiarazioni della prostituta “Pupetta” e di Francesco Meligeni, quest’ultimo un servo dipendente di Albanese e della cognata, si comincia a sospettare che proprio Albanese, assieme ad Aurelio Ricci originario di Ceglie Messapica nell’attuale provincia di Brindisi, e a Giovanni Calabrese originario di San Giorgio Jonico nell’attuale provincia di Taranto, avevano ammazzato Groccia proprio per depredarlo del denaro che aveva nel portafoglio.

Il terzetto viene arrestato, ma le indagini sono ancora allo stato iniziale: 

manca la ricostruzione della dinamica dei fatti relativa all’omicidio, l’eventuale arma usata e i riscontri al movente. Mancano le prove, insomma.

“Pupetta” e Meligeni, però, oltre a quelle informazioni, ai carabinieri rivelano pure che Albanese è il capo della malavita che s’è formata a Corigliano, e fanno anche i nomi di moltissime altre persone che si sarebbero associate a lui. Finiscono tutte denunciate per associazione a delinquere, ma l’indagine sulla presunta organizzazione “mafiosa” finirà… a puttane, o a tarallucci e vino se preferite.

L’indagine sull’omicidio di Groccia invece riserverà delle sorprese, molte, anzi pure troppe.

L’indagato Giovanni Calabrese, infatti, confessa. E forse il suo, da ‘ste parti, è il primo caso di “pentitismo”, ovviamente ante litteram

Attenzione, perché in questa storia criminale le sorprese sono sempre in agguato.

Calabrese, in presenza del podestà di Corigliano e d’altri cittadini, rivela ai carabinieri d’avere preso parte all’omicidio, confessando d’avere trasportato il cadavere di Groccia dal rione San Domenico a Via Margherita, collocandolo in modo da far supporre che la morte fosse stata dovuta a una disgrazia. E racconta al maresciallo che lo verbalizza, che Groccia, la sera prima d’essere rinvenuto cadavere nella cunetta, poco prima di mezzanotte s’era fermato lungo la strada ad ingiuriare Albanese. Quest’ultimo, fortemente irritato, era uscito armato del manico d’una pala, lo rincorse, lo raggiunse, lo colpì al capo e lo fece stramazzare a terra. Morto. Poi aveva chiesto a Ricci d’aiutarlo a trasportare il cadavere, ma questi s’era rifiutato, e allora andò da lui costringendolo a trasportare il cadavere, da lui stesso poi buttato giù dalla cunetta oltre il muretto prima d’allontanarsi senza curarsi d’altro, mentre Albanese era rimasto lì alcuni minuti, ma lui non aveva visto quello che aveva fatto.

Si fa presto a dire “pentito”: sì, perché Calabrese davanti al giudice istruttore ritratta la propria confessione, affermando che gli era stata estorta dai carabinieri con la violenza, che lui quel giorno nemmeno era a Corigliano, perché il 12 giugno, incaricato dal suo massaro, il signor Alfonso Cilento, di formare una squadra di lavoratori per la raccolta del grano nella Piana di Sibari, era partito per Taranto dopo avere ricevuto 300 lire dal padrone e con un suo paesano s’era recato a San Giorgio Jonico, da dove aveva telegrafato a Cilento per avere altro denaro necessario per l’ingaggio e il trasporto dei lavoratori, denaro che gli fu spedito a San Giorgio Jonico con un vaglia telegrafico, prima di ripartire, il 18 giugno, con gli operai, fermandosi però a Sibari.

Calabrese fornisce le copie autentiche del telegramma spedito a Cilento il 14 giugno e la ricevuta del vaglia telegrafico di 200 lire speditogli da Cilento il 16 giugno a San Giorgio Jonico. 

Un alibi di ferro?

Macché. Gl’inquirenti infatti hanno un dubbio:

e se dopo avere spedito il telegramma Calabrese fosse rientrato a Corigliano e ripartito la mattina del 16 dopo l’omicidio? 

Dapprima la confessione davanti ai carabinieri ed ai testimoni, poi la ritrattazione, ma, soprattutto, “Pupetta” e Meligeni avevano giurato d’averlo visto nel casino di Albanese la sera del 15. Si verificano gli orari dei treni e il sospetto che Calabrese fosse rientrato a Corigliano prima dell’omicidio e ripartito subito dopo si rivela assolutamente fondato. 

Albanese e Ricci negano tutto e si protestano innocenti. Tengono duro. 

Questa però non sarebbe una storia di sorprese se all’improvviso, Albanese non chiedesse, così come chiede, d’essere sentito dal giudice istruttore. Al quale racconta che la sera del 15 giugno, mentre si trovava in casa della cognata Teresa La Grotteria, aveva sentito un ubriaco che dalla strada gli lanciava atroci ingiurie. Albanese riferisce d’avere atteso un po’ senza muoversi, ma che poi, udendo che l’ingiurioso lanciava anche pietre contro la porta, era uscito in strada assieme a Ricci ed afferrato un manico di scopa aveva colpito in testa quell’uomo senza neanche appurare chi fosse, e che poi stesso aveva proseguito il suo cammino senza reagire. Albanese precisa che dopo avere cenato assieme a Ricci, a un certo Coletti, a Teresa, ed alla sua amante Rosa, era andato a dormire, per uscire di casa il giorno seguente con Ricci recandosi a Castrovillari a comprare un cavallo. L’accusato dell’assassinio conclude affermando che una volta ritornato a Corigliano da Castrovillari, era venuto a sapere del ritrovamento del cadavere di Groccia nella cunetta.

Alla fine parla pure Ricci. E racconta che Groccia, la sera del fatto, poco prima di mezzanotte s’era fermato ad ingiuriare Albanese dalla strada; che l’ingiuriato, fortemente irritato, era uscito armato del manico d’una pala, che lo seguì, che lo colpì al capo e lo fece stramazzare a terra ove era rimasto cadavere, che gli aveva chiesto aiuto per trasportare il cadavere altrove, ma che lui s’era rifiutato. Praticamente lo stesso racconto, poi ritrattato, di Calabrese.

La prima ipotesi accusatoria formulata dagl’inquirenti era quella d’omicidio a scopo di rapina in concorso fra i tre, ma alla luce delle diverse versioni date del fatto, le imputazioni vengono così modificate: 

omicidio volontario per Albanese, concorso in omicidio volontario per Ricci, favoreggiamento per Calabrese, mentre a tutt’e tre viene contestato il furto in concorso perché avvenuto come conseguenza e non come movente dell’omicidio Groccia. 

Rinviati a giudizio al cospetto dei giudici dell’allora Corte d’Assise di Rossano (avete letto bene, Corte d’Assise, pensate che progressi dopo quasi un secolo!), durante il processo Albanese conferma la propria versione, Ricci ritratta tutto e Calabrese ribadisce che lui non era a Corigliano la notte del delitto. Tutt’e tre, ovviamente, si dichiarano, innocenti pure per il contestato furto.

I giudici non avranno dubbi che Groccia fosse morto per quel colpo in testa sferratogli da Albanese: 

e nella sentenza scrivono che carabinieri e medici legali avrebbero dovuto capirlo immediatamente dopo che il rinvenimento del cadavere, perché, se la lesione alla parte posteriore del capo fosse stata riportata sbattendo la testa nella cunetta, lì avrebbero dovuto trovare un’abbondante chiazza di sangue, mentre di sangue ne venne trovato poco e in parte coagulato. Groccia era morto praticamente sul colpo, e ciò, secondo i giudici, è provato dai risultati dell’autopsia che accertò la frattura delle ossa occipitali e una grossa ecchimosi. Groccia, colpito, era caduto a terra ed era stato poi trasportato di peso e gettato nella cunetta: 

i periti avevano infatti accertato la presenza di vomito nella gola del cadavere e la profusa emorragia dalla ferita, ma nella cunetta non era stata rinvenuta alcuna traccia di vomito e poche tracce di sangue, quindi il delitto era avvenuto altrove. 

La sentenza è un’esplicita quanto spietata critica ai carabinieri e al giudice istruttore che avevano condotto le immediate indagini.

I giudici credono però al fatto che Albanese, udite le frasi oltraggiose pronunciate da Groccia nei suoi confronti e il lancio di pietre contro la porta, con ira s’era armato del primo bastone che gli era capitato per le mani colpendolo in testa, ma senza avere l’intenzione d’ammazzarlo. Quindi concedono all’imputato l’attenuante della provocazione lieve e perciò lo condannano a soli 8 di carcere.

Ricci viene invece assolto dall’imputazione di concorso nell’omicidio per insufficienza di prove a suo carico.

Per Calabrese i giudici non hanno dubbi: 

è provata la sua responsabilità per il reato di favoreggiamento, e dunque lo condannano a 1 anno di carcere.  

Per il furto, invece, i giudici affermano che non è provato che Groccia avesse, al momento della sua morte, una somma di denaro superiore a quella che gli era stata trovata in tasca: 

perciò, tutt’e tre assolti per insufficienza di prove… direttore@altrepagine.it

Di FABIO BUONOFIGLIO

Classe 1974. Spirito libero, animo inquieto e ribelle. Giornalista. Negli ultimi 25 anni collaboratore e redattore di diverse testate quotidiane e periodiche regionali nel Lazio e nella sua Calabria. Nel 2011 fonda AltrePagine, la propria creatura giornalistica che da allora dirige con grande passione.

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