di Domenico A. Cassiano

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Mortati apparteneva – come Antonio Gramsci – ad una famiglia della minoranza di lingua albanese del Cosentino; ad una delle tante famiglie della piccola borghesia delle professioni intellettuali, che tanto avevano contribuito al Risorgimento nazionale e si erano, nella stragrande maggioranza, schierate o su avanzate posizioni di cattolicesimo liberale  o democratico-repubblicane.  

Un suo antenato, Gennaro Mortati, arrestato dopo l’attentato di Agesilao Milano, scontò quattro anni di carcere preventivo;  si distinse nell’assedio di Gaeta, meritandosi due medaglie al valore. Fu persona di grande cultura; lasciò  importanti saggi sul Risorgimento, sulla filosofia della storia, sulla religione ed un romanzo sull’assedio di Gaeta.

Il padre, Tommaso, era di Civita e la madre, Maria Tamburi, di S. Basile. Costantino nacque a Corigliano nel 1891, dove il padre esercitava le funzioni di pretore. 

Benchè le vicende della sua vita , la sua attività di studioso e le funzioni pubbliche ricoperte lo avessero tenuto lontano dalla comunità italo-albanese e dalla sua patria civitese, ne sentì sempre una struggente nostalgia. In alcune lettere, indirizzate al presidente del circolo di cultura di Civita “Gennaro Placco”  scriveva, infatti, che  “l’amore del natìo loco e la prospettiva di venire a contatto  con giovani entusiasti  e pieni di ansia di rinnovamento sono stimoli così suggestivi che mi inducono a non farmi sfuggire  l’occasione di accettare il cortese invito”.  E ancora: “…il Circolo di cultura rievoca il ricordo del mio povero Padre che era orgoglioso della propria Patria Civitese perché riteneva si distinguesse fra le altre comunità albanesi per le doti di iniziativa e di impegno dei suoi componenti”. 

Studiò nel Collegio italo-albanese di S. Adriano,  dove conseguì la maturità classica a pieni voti nel 1910. Fu proprio durante gli anni del liceo che Costantino manifestò il suo interesse per la politica ed un sano ordinamento dello Stato, nel quale precise garanzie fossero assicurate alla classe lavoratrice.

Sul n. 5 del 1° maggio 1910 de La Giovane Calabria, periodico letterario-scientifico-politico, di S. Demetrio Corone, diretto da Manlio Pignatari,  il futuro illustre costituzionalista, allora alunno del Liceo di S. Adriano, celebrava a suo modo il 1° Maggio, constatando e rilevando preliminarmente che la situazione oggettiva delle classi lavoratrici in Calabria era, all’epoca, assai depressa sicchè “in  noi che amiamo di vero e sincero amore questa sventurata terra calabrese, il gaudio di questo giorno è velato” per il “doloroso spettacolo dell’apatia del popolo calabrese che sembra non avere coscienza dei tempi né fede in sé stesso e che par rassegnato ai mali di cui si lagna”. Osservava il Mortati che, di fatto, non esisteva una classe lavoratrice  come “ente collettivo”, cosciente dei propri diritti ed in grado di farli valere e di dare – com’è scritto nell’epigrafe all’articolo – “l’ultimo colpo di piccone che faccia crollare il vacillante edificio sociale”.

Mentre, altrove, “l’organismo sociale” è in rapida trasformazione ed i lavoratori si associano in potenti organizzazioni che, se incutono “sbigottimento”e “paura” ai “dominatori”, determinano il cangiamento sociale, imprimono nuovo vigore alle classi lavoratrici e fiducia verso il raggiungimento del progresso e “verso una mèta sublime di giustizia e di civiltà”, al contrario, la Calabria sembra ferma al feudalesimo: “voi operai calabresi, giacete disorganizzati nell’abiezione della servitù, non avete conoscenza dei vostri sacri diritti, siete relegati in una nullità morale veramente desolante, vivete ancora la vita dei bruti, curve le fronti sotto la parca legge della fame”. 

Il mancato risveglio dei lavoratori calabresi costituiva un ostacolo all’ammodernamento ed al progresso della Regione per il fatto che  lasciava perdurare uno stato di generale arretratezza e di ingiustizia sociale, ormai intollerabile.

Accadeva così che “l’ozioso latifondista, possessore di immense estensioni di terra, acquistate dai suoi antenati con la rapina e con il furto, può impunemente lasciare…incolte ed abbandonate quelle terre, che, distribuite fra di voi e coltivate con cura e con amore, diverrebbero la più grande fonte di ricchezza e vi permetterebbero di vivere in condizioni molto migliori di quelle attuali; il capitalista vi può impunemente sfruttare rubandovi una parte del vostro salario, vi può costringere ad un sopra-lavoro che serve ad alimentare i suoi vizi, ad accrescere le sue ricchezze, può gettarvi sul lastrico costringendovi fra il delitto ed il morire d’inedia e non ha nulla da temere da voi che siete sparsi e spesso divisi da odi e da inimicizie”. 

E’ sorprendente che il giovane figlio di Tommaso Mortati, Pretore regio di Corigliano Calabro, pensasse e scrivesse e pubblicasse tali “eresie”, oltre un secolo fà! Ma tali concezioni erano destinate a maturare col tempo e ad essere trasfuse nelle opere del Mortati costituzionalista e nella stessa attuale Costituzione della Repubblica e ad essere sintetizzate nel principio democratico, che ipotizza una democrazia reale in cui l’apporto popolare sia veramente determinante e nel principio della democrazia governante, oltre che nella tutela del lavoro, in tutte le sue forme.  Nel nuovo Stato democratico, infatti, debbono avere diritto di cittadinanza “tutte le specie di lavoro, anche non manuale, e, quindi, ad allargare la struttura sociologica comprendendovi tutti gli esercenti funzioni sociali non parassitarie o non implicanti sfruttamento di lavoro altrui, con la sola esclusione perciò delle posizioni di privilegio o di trattamenti non adeguati alle capacità e rendimento del lavoro” (v. Mortati, Il lavoro nella Costituzione). 

Queste sue posizioni, che avevano origini lontane nel tempo e che saranno chiaramente manifestate e precisate al tempo della Costituente, si presteranno anche a non pochi fraintendimenti: basti pensare che parevano eccessive allo stesso Alcide De Gasperi che chiamava Mortati e Dossetti, per altro verso, “i miei radicali”.

I lavoratori calabresi avevano l’obbligo di associarsi sia per emancipare sé stessi, rendendosi cittadini liberi, capaci di autodeterminarsi sia per contribuire al generale progresso civile della Regione e dell’intero Paese. Ritiene realisticamente il Mortati, fotografando la realtà sociale dell’epoca, che i ceti dominanti, “le persone cosiddette civili”  consideravano le classi popolari “di razza inferiore” e “quando parlano con voi assumono un tono sprezzante…e non nascondono un senso di ripugnanza quando sono costrette a starvi vicino. Ciò, per dio, deve finire! Voi che formate la vita, la forza, la potenza della nazione non potete, non dovete più sopportare che vi si consideri  come esseri spregevoli, non dovete più tollerare che vi si sfrutti senza pietà, voi dovete convincervi d’essere chiamati a ben altro che a lavorare dodici o sedici ore al giorno unicamente per mangiare del pane nero…voi dovete acquistare chiara la nozione di una Società futura, di un’Epoca alla quale d’istante in istante ci avviciniamo e di cui la storia…ci addita infallibile l’avvenimento…”. 

La sola associazione è, per i lavoratori, lo strumento imprescindibile della loro emancipazione. Ma non è sufficiente. Occorrono, in più, l’istruzione e l’educazione, in mancanza delle quali essi non possono diventare coscienti dei loro diritti e, per conseguenza, “non potete ottenere quella partecipazione alla vita politica, senza la quale non riuscirete ad emanciparvi”.  Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza perché, sebbene sia presente a livello intuitivo nel giovane Mortati, solo in seguito assumerà, nel Mortati costituzionalista, un significato rilevante poiché – come scrive –  “la personalità sociale dell’uomo” si afferma nel lavoro. Solo “nel lavoro ciascuno riesce ad esprimere la potenza creativa in lui racchiusa ed a trovare nella disciplina e nello sforzo che esso impone, insieme allo stimolo per l’adempimento del proprio compito terreno di perfezione, il mezzo necessario per soddisfare al suo debito verso la società con la partecipazione all’opera costitutiva della collettività in cui vive”.

I lavoratori calabresi debbono portare il loro contributo “al raggiungimento di questo ideale sublime di eguaglianza e di giustizia”, aprendosi alla speranza e alzando “le fronti gravate del marchio del servaggio” per abbattere l’ingiusto “edificio sociale”, così diradando le connesse “nebbie della superstizione e dell’oscurantismo”.

Tali enunciazioni, benché ancora schematiche, contengono in germe quel principio lavoristico che, insieme al principio democratico, avrebbero, poi, caratterizzato la Costituzione della Repubblica, che, secondo il Mortati, avrebbe dovuto definitivamente mettere tra parentesi il vecchio ordinamento liberal-democratico, ormai avviato a dissoluzione perchè fermo nella platonica ed astratta teorizzazione dei diritti di uguaglianza e di libertà, dando vita ad uno Stato moderno, in cui il lavoro deve rappresentare un valore fondamentale, senza sfociare – secondo Mortati –  in uno Stato classista, “monopolizzato dalla sola classe dei lavoratori manuali”. 

La Costituzione repubblicana doveva avviare una fase nuova di democrazia progressiva e veramente partecipativa, eliminando anche quel “contrasto fra classi derivante dall’esistenza di situazioni di vantaggio non corrispondenti al senso di giustizia avvertito dalla coscienza sociale”, non potendosi più giustificare qualsivoglia stato di privilegio.

Costantino Mortati – che, proprio nel 1910, conseguirà brillantemente la maturità classica nel liceo di S. Adriano –  darà in seguito, come attestano le sue opere, pregnante contenuto giuridico-filosofico ai suoi ideali giovanili di giustizia, libertà, di rispetto della persona, “fondamento di ogni democrazia” nonché “presupposto del suo regolare funzionamento”. Anche nella maturità, ribadirà il suo profondo convincimento che la mera affermazione dei diritti di libertà e di uguaglianza è pura e semplice ipocrisia se non accompagnata dagli strumenti giuridici idonei a tutelare le posizioni più svantaggiate con il conseguente e necessario intervento statale per eliminare tutte le situazioni – di fatto e di diritto – che non rendono effettivo il diritto di libertà e di uguaglianza. Tali ideali  furono trasfusi nei principi fondamentali della Costituzione, alla cui elaborazione diede il Mortati un contributo rilevante ed, a volte, determinante.

Le beghe interne al suo partito, ma soprattutto il popolo calabrese – che egli tanto amava e che, purtroppo, era rimasto ancora quello descritto dal giovane Mortati – non fu in grado di comprendere ed apprezzare il suo messaggio: nelle elezioni politiche del 1948, gli negò il seggio al Parlamento, preferendogli il paesano di turno dalla retorica tonitruante.

Conseguita brillantemente la maturità classica, nel 1910, lo stesso anno si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania; città nella quale la sua famiglia si era trasferita da Messina in seguito al terremoto del 1908. Nel 1912, ottenne il trasferimento all’Università di Roma per avere vinto una borsa di studio della Fondazione Pezzullo.  In quest’ultima università, si laurea in giurisprudenza nel 1914  col professore Filomusi-Guelfi; tre anni  dopo, conseguirà la laurea in Lettere e Filosofia col filosofo Bernardino Varisco.

Diventato, per concorso, funzionario della Corte dei Conti, disimpegna contemporaneamente l’incarico di assistente volontario alla cattedra del professore  Luigi Rossi, ordinario di diritto pubblico comparato. Nel 1936, vinse la cattedra di diritto costituzionale. La sua carriera universitaria si svolgerà nelle università del centro-sud: da Messina a Macerata, a Napoli ed, infine, a Roma.

Partecipò alla Resistenza a Roma durante il periodo di occupazione nazista, manifestando simpatie e convergenze con il partito della Democrazia del Lavoro. Successivamente, almeno a partire dal 1945, per influenza di Dossetti, ai cui orientamenti si sentiva molto vicino, aderì alla Democrazia Cristiana, nelle cui liste sarà eletto  deputato all’Assemblea Costituente. 

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Intensa fu la sua attività sia nella Commissione dei 75 sia nel Comitato di redazione che nella stessa Assemblea Costituente. Come membro della Commissione per la Costituzione – che aveva il compito di predisporre un progetto per l’organizzazione costituzionale dello Stato repubblicano –  Costantino Mortati presentò, nel settembre 1946, una sua relazione, distinta in tre parti, nella quale affronta il problema della essenza dello Stato democratico e della struttura stessa dello Stato e dell’organizzazione e del funzionamento del potere legislativo.

Alla base di ogni effettiva democrazia vi è il popolo, la cui partecipazione vivifica le istituzioni. Il popolo è il vero protagonista: elegge i suoi rappresentanti nei vari organismi e, nei momenti di crisi, esso è l’arbitro supremo. Ad esso deve essere anche riconosciuta la possibilità effettiva di esprimere le proprie opinioni mediante proposte di legge e mediante il referendum. 

Che cos’è il popolo per Mortati?

Non è la massa amorfa ed indifferenziata in cui il singolo diventa interscambiabile e nulla conta, bensì è “molteplicità di gruppi sociali”, che garantisce il rispetto della personalità e degli interessi dei singoli, contribuendo – ognuno naturalmente  per la sua parte – a dare “all’opera comune un proprio inconfondibile accento”.  Ciò perché “il grande problema della democrazia moderna…è quello di ordinare in modo sempre più perfezionato le masse amorfe  in organismi differenziati secondo le varie specie di interessi sociali, e di fare emergere in essi il maggiore numero possibile di individui rendendoli sempre più consapevolmente attivi per lo Stato”. 

Nella democrazia moderna, le grandi masse, “finchè rimangono in uno stato di compattezza indifferenziata”, potrebbero anche costituire un pericolo perché la loro strumentalizzazione è sempre possibile, con il gravissimo rischio di essere condotte  verso “indirizzi non adeguati ai reali bisogni ed agli effettivi interessi dei loro componenti”.

Democrazia, dunque, però alla condizione imprescindibile che sia fondata sul pluralismo effettivo, sostanziato dalla “molteplicità dei gruppi sociali”in modo che la società civile, organizzata in gruppi sociali, possa costituire una sorta di contraltare e di contrappeso al fine di bilanciare e riequilibrare i possibili eccessi del potere statale.

Il rispetto della persona “sta a fondamento di ogni democrazia ed è il presupposto del suo regolare funzionamento”. La mera affermazione dei diritti di libertà e di uguaglianza senza i necessari strumenti di tutela in difesa delle posizioni più svantaggiate  sarebbe astratta ed ipocrita.  L’intervento statale è, pertanto, necessario per eliminare tutte le situazioni di svantaggio, che non rendono effettivo il diritto di libertà e di uguaglianza perché – scrive il Mortati – “è l’esigenza della libertà, cioè l’interesse sociale  ad ottenere il raggiungimento del massimo sviluppo  di ogni personalità umana che conduce a sollecitare l’intervento dello Stato”. 

Il modello personalista, che presuppone il pluralismo dei gruppi, delle culture e degli interessi,  esclude lo Stato puramente liberale perché garantisce l’esercizio dei diritti ai privilegiati e lo Stato totalitario, assoluto, perché evidentemente oppressore e negatore dei diritti fondamentali dei cittadini.

I vari gruppi sociali, se sono utili come contropoteri al fine di riequilibrare gli eventuali eccessi del potere statale, debbono anche essere tra loro coordinati, come “in una serie di cerchi concentrici”. Altrimenti – per usare le parole del Mortati che sembrano anche adatte all’attuale situazione italiana – “più che dar luogo ad un solido ed organico sistema di equilibrio si porrebbero come ragione di debolezza e di instabilità  dell’azione statale”. I gruppi, insomma, debbono integrarsi nella comunità, facendo prevalere gli interessi generali in armonia con quelli particolari. Gli enti “minori” – secondo il Mortati –  debbono “intervenire nella formazione e nel funzionamento dei maggiori fino allo Stato”.

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Il Mortati non nutriva una fiducia illuministica nella bontà dei congegni istituzionali. Era, invece, dell’opinione che le istituzioni hanno una loro solida base solo se corrispondono ai bisogni reali della società civile.  Seguendo questo metodo, l’organizzazione dei poteri costituzionali nella mutata situazione dell’Italia non può limitarsi alla semplice riproposizione degli strumenti politici dello Stato liberale ottocentesco, dato che lo Stato deve assumersi nuovi compiti nei vari campi della vita sociale al fine di garantire – rendendoli concreti – i diritti fondamentali dei cittadini.

In questa prospettiva, il regime parlamentare – e non quello presidenziale –  è la forma di governo che  meglio si adatta ad interpretare le esigenze di una comunità variegata e complessa per il coordinamento dei pubblici poteri e per la capacità delle istituzioni di essere espressione della volontà popolare.

Il Mortati propone il sistema parlamentare bicamerale, distinto in una Camera, nella quale siano eletti i rappresentanti dei partiti, ed un’altra che sia rappresentativa di tutte le categorie o classi sociali, in cui la ripartizione dei seggi doveva essere fatta a base regionale, ma sempre in rappresentanza delle varie forze sociali.

Sull’istituzione di questa seconda Camera, il pensiero del Mortati non si discostava né dal programma del vecchio Partito Popolare e né da quello recente della Democrazia Cristiana. Infatti, nell’appello “ai liberi e forti” del 1919, si ipotizzava, tra l’altro, l’istituzione di un senato in rappresentanza dei corpi sociali; parimenti, nel programma democristiano del 1946, si riprendeva tale progetto, auspicando non solo la rappresentanza individuale, ma anche quella istituzionale di tutti gli organismi sociali.

Costantino Mortati non condivideva la forma parlamentare pura, proposta dal partito comunista, perché  la consapevolezza della complessità della situazione italiana, i precedenti della III Repubblica Francese e la vita travagliata della Repubblica di Weimar lo consigliavano di inserire un elemento di stabilità, fissando il termine di durata biennale al governo, dopo l’ottenimento della fiducia, in quanto “corrisponderebbe all’esigenza preminente dei regimi democratici moderni di dare forza, stabilità ed autorità all’esecutivo, perché l’instabilità dei governi è il danno peggiore che possano lamentare i vari paesi, in quanto ne deriva l’impossibilità di seguire una linea logica, di svolgere un programma coerente che risponda alle esigenze del Paese; e quindi il discredito della democrazia”.

La fissazione del termine di durata biennale del governo, dopo l’ottenimento della fiducia da parte del parlamento, sarebbe utile perché: a) servirebbe a fare maggiormente riflettere il Parlamento nell’accordare la fiducia; b) garantirebbe la stabilità dell’esecutivo; c) darebbe all’esecutivo un sufficiente grado di autonomia nel mettere in atto la sua azione di governo; d) servirebbe anche a delimitare il potere di scioglimento delle Camera da parte del Capo dello Stato. 

Secondo il Mortati, al Capo dello Stato dovrebbe essere consentito di intervenire  nei casi di contrasto tra Parlamento ed Esecutivo proprio al fine di tentare di sanare  o di eliminare le ragioni del dissidio. Nel caso di impossibilità di conciliazione, dovuta a contrasti insanabili, il Capo dello Stato dovrebbe invitare il Parlamento  ad esprimere chiaramente attraverso il voto le proprie ragioni; successivamente, valutate le ragioni del dissenso, deliberare se revocare il governo o sciogliere il Parlamento,  appellandosi al popolo come arbitro supremo.

Nel sistema costituzionale mortatiano, il popolo è considerato l’ago della bilancia; ad esso bisogna fare ricorso non solo per sciogliere eventuali conflitti tra potere legislativo e potere esecutivo, ma anche ogniqualvolta bisogna affrontare problematiche non discusse nella campagna elettorale e sulle quali, quindi, il popolo non ha avuto la possibilità di esprimersi.

L’ineliminabile ed essenziale funzione, riservata al popolo è attestata anche dall’importanza che assume nella impostazione costituzionale del Mortati l’istituto del referendum, che potrebbe anche costituire uno strumento di educazione civica delle masse popolari, ma “potrebbe  giovare –scrive il Mortati – indirettamente alla stabilità del governo ponendo una remora alle crisi altrimenti provocate a discrezione del parlamento e risolvendo (se in tal senso sia l’apprezzamento discrezionale del Capo dello Stato) le controversie sorte, anziché con il mezzo dello scioglimento  delle camere con quello del referendum”. 

Mortati difese con passione il suo progetto nell’Assemblea Costituente ed in sede di Commissione. Anche  se prevalente fu il suo impegno nel progetto di organizzazione costituzionale dello Stato, con l’autorevolezza che gli derivava dai suoi studi e dalle sue ricerche, non tralasciò di intervenire nel dibattito  sui rapporti civili, economici, etico-sociali, politici, sulle autonomie locali, sui sistemi elettorali, sul Parlamento, sulla disciplina dei partiti politici, sul referendum e sulle disposizioni finali e transitorie della Costituzione.

Non tutte le sue proposte furono accettate ed altre ne uscirono mutilate dai compromessi, imposti dalle contingenze politiche. Ma l’attualità del suo pensiero resta evidente.  Preoccupazione fondamentale del Mortati costituzionalista  fu la necessità  del raccordo fra i corpi intermedi della società civile  e le istituzioni. In una parola: la necessità  che il Paese legale fosse veramente rappresentativo di tutte le istanze e le esigenze del Paese reale. 

Nel tempo dello strapotere di gruppi, intolleranti ed insofferenti della democrazia, della frammentazione degli interessi sociali e del prevalere dei gruppi di potere, della crisi di rappresentanza dei partiti politici, incapaci di mediare tra interessi sociali ed istituzioni ed ormai ridotti  ad esigue èlites che sembrano battersi per l’autoconservazione, ognuno può facilmente constatare quanto sia  ancora valido il messaggio di Mortati.

Egli aveva anche intuìto e più volte sottolineato che uno stabile sistema democratico  non è tanto garantito dalla esistenza dei partiti – che sono piuttosto strumenti per la conquista del potere – quanto dagli organismi di partecipazione diretta del popolo, che andrebbero sempre più potenziati in modo da consentire che tutte le varie e complesse istanze  di una società moderna possano trovare adeguata espressione  e considerazione. Era questo il suo chiodo fisso. Molti anni dopo, nel giugno del 1964, nel Convegno di studio, tenuto a Roma su “Il Parlamento nella società moderna”, Mortati  ribadirà la sua tesi  e, cioè, che il Parlamento ritroverà la sua piena funzione se e nella misura in cui  saprà diventare l’istanza superiore  di altri organi rappresentativi, da istituire a livello più basso; e, cioè, nella misura in cui la nostra attuale società cesserà di essere organizzata  e dominata dai grandi organismi burocratici, partiti compresi nella loro attuale organizzazione, o tecnocratici.  E troverà una articolazione più sciolta, più aderente ai reali interessi della collettività. Si tratta certamente di una ipotesi suggestiva con le sue difficoltà, ma non può revocarsi in dubbio che essa è intimamente legata alla salvaguardia ed allo sviluppo della democrazia nonché  all’avvenire del Parlamento, nel quale non debbono trovare posto tanti piccoli ed inutili vassalli di un qualsiasi signore, sempre pronti all’obbedienza.

L’insegnamento del Mortati è nel senso che occorre ricercare sempre nuovi strumenti  di democrazia, superando gli schemi ottocenteschi della borghesia liberale, non più utilizzabili nella mutata realtà politica e sociale del secondo dopo-guerra.  “Se la storia può offrire degli ammaestramenti – egli scriveva –  quello emergente dalla esperienza costituzionale vissuta dalla Germania  suona in questo senso: che una democrazia moderna  non può validamente poggiare sull’impalcatura caratteristica dello stato liberale dell’800, ma esige che l’assetto istituzionale democratico permei  tutte le strutture economiche e sociali, perché è dalla profonda ed intima compenetrazione di queste nel proprio organismo che può trovare le vere ragioni della sua solidità”.

Questa posizione del Mortati – che a taluni appariva addirittura come “giacobina” – era sicuramente atipica  anche nel suo partito, dominato dal degasperismo, soprattutto se si tiene conto che egli sosteneva la necessità che la Costituzione non si limitasse  soltanto all’enunciazione di alcuni principi, ma ne avviasse la loro pratica attuazione affinchè le “riforme di struttura sociale necessarie a dare un nuovo volto allo Stato”, non fossero rinviate ad un secondo momento.

Forse Mortati esigeva dal suo partito e dalle forze politiche ed economiche dominanti più di quanto esse erano in grado di dare in quel determinato momento storico. Scontò la sua “atipicità” ed intransigenza morale con la mancata elezione al primo Parlamento della Repubblica.

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Nel dicembre del 1960, fu nominato dal Presidente della Repubblica, Gronchi, giudice della Corte Costituzionale.  In tutta la sua attività di giurista, di politico all’Assemblea Costituente e di giudice alla Corte Costituzionale, si ispirò costantemente ad alcuni principi fondamentali, che ebbero anche riconoscimento costituzionale: il personalismo ovvero la salvaguardia dei diritti e della dignità  e della libertà della persona umana , che viene prima di ogni legge e di ogni istituzione;  il solidarismo col contestuale riconoscimento dei diritti dei lavoratori; il pluralismo, consistente nel riconoscimento e nella garanzia, essenziali in uno stato democratico, della dialettica delle forze e dei gruppi sociali; e, infine, l’universalismo, che pure divenne principio costituzionale, sancito dall’art. 11 della Costituzione nella parte in cui “consente…alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”.

Coerentemente con questi principi ispiratori, la sua attività di costituente mirò – come in parte si è detto – anche alla ricerca di una forma ed organizzazione del potere esecutivo che, superando il parlamentarismo ottocentesco,  assicurasse la necessaria stabilità di governo col riconoscimento di una qualche autonomia al primo ministro. In questo fu sconfitto dalla reciproca diffidenza delle forze politiche  contrapposte, ma non tardò a riproporsi il problema – come oggi è assai chiaro –   che il Mortati aveva intuìto già nella fase di elaborazione della Carta Costituzionale.

Si battè per l’autonomia e l’autogoverno del potere giudiziario proprio a garanzia della libertà  e dei diritti di uguaglianza dei cittadini e dei corpi e della formazioni sociali e per il controllo sulla costituzionalità delle leggi votate dal Parlamento.

Merita anche di essere sottolineata  la sua appassionata difesa, nella seduta del 17 gennaio 1947 della Commissione per la Costituzione,  replicando alle critiche  di Togliatti, dell’autonomia regionale, i cui fini vengono individuati  in tre punti basilari: “a) avvicinamento dell’amministrazione agli interessi locali per l’educazione politica dei cittadini e per l’adattamento alle esigenze locali; b) garanzia di libertà quale può essere data da un saldo gruppo omogeneo; c) equilibrio delle regioni fra loro, superando l’inconveniente della sopraffazione delle regioni più popolate e più ricche su quelle meno popolate e più povere”.

Contestò particolarmente  l’assunto di Togliatti – secondo il quale la situazione del Mezzogiorno sarebbe stata aggravata con l’istituzione delle Regioni – in quanto il decentramento regionale era funzionale al “rinnovamento politico sociale del Mezzogiorno”;  non sanciva alcuna discriminazione e separatezza  fra regioni, ma, al contrario tale articolazione dello Stato, mirava alla soluzione dei problemi specifici di ciascuna delle regioni ed in definitiva consolidava l’unità del Paese nel promuoverne e tutelarne  ogni sua parte con le sue “mille culture”.

Il “rinnovamento del Mezzogiorno” – sosterrà Mortati nel saggio Problemi del Mezzogiorno (1948)  –  ossia la “questione meridionale”  è un passaggio fondamentale ed imprescindibile per il consolidamento della democrazia in Italia. Non sarebbero stati sufficienti solo l’eliminazione delle ingiustizie e lo svecchiamento, ma occorreva anche la passione civile, la presa di coscienza di dovere profondamente innovare nel costume e nella mentalità. “Solo da un potente afflato morale può attendersi che insieme alla riforma delle strutture sociali e politiche, che dovrà rimuovere le incrostazioni del passato, si crei quel fermento  di nuova vita spirituale dal quale potrà sorgere una convivenza di liberi e di eguali”.

Nell’occasione, aveva anche ammonito che: “Non si riflette forse abbastanza all’ostacoloche la permanenza della lamentata condizione di inferiorità pone all’instaurazione di un saldo regime democratico. Infatti, una vera democrazia non può sorgere se non quando si crei alla base sociale una quanto più possibile compiuta omogeneità; omogeneità impossibile a raggiungersi fino a quando persista il solco che divide in due parti contrapposte la Nazione”.

Per Mortati, occorre ricercare il “sostrato reale” “al di sotto del sistema delle norme”, che ne costituisce la giustificazione storica e dialettica, anche al fine di “rendersi conto dell’effettiva essenza di un ordinamento statuale”. In tale contesto, nell’ambito dello stato nazionale, egli riconosce la rilevanza delle minoranze linguistiche, come formazioni sociali e come comunità di valori culturali, degne della tutela giuridica per essere salvaguardate nei confronti dei detentori del potere.

La sovranità popolare si attua, infatti, attraverso il riconoscimento del  pluralismo sociale, regolato dalla Carta Costituzionale, i cui “articoli 2 e 5 richiedono l’instaurazione di strutture organizzative, meglio idonee a riflettere nello Stato l’assetto pluralistico assunto dalla società, senza compromettere l’unità dell’indirizzo ed anzi arricchendolo dei motivi da quella emergenti”.

Per conseguenza, i gruppi linguistici minoritari o le comunità alloglotte, in quanto espressione di forze sociali reali, debbono trovare apposita tutela in uno stato democratico, particolarmente nella complessità della società contemporanea in cui – secondo il Mortati – “l’individuo appare isolato, e ritrova i mezzi per la propria difesa nell’associazione”.

Egli non mancò di sottolineare, nelle edizioni del suo manuale di diritto pubblico, il fatto che l’art. 6 della Costituzione, posto a tutela delle minoranze linguistiche, richiami anche il divieto di discriminazione di cui al primo comma dell’art. 3 della Costituzione, venendo incontro – secondo il Mortati – “anche in questo campo (ad) un’esigenza di uguaglianza sostanziale, assicurando ai gruppi alloglotti condizioni idonee alla conservazione del loro patrimonio linguistico”.

Il partito politico rientra in quel complesso di formazioni sociali in cui il cittadino ha la possibilità di realizzarsi e di esprimersi. In senso tecnico, il partito è uno strumento di mediazione tra i cittadini e le istituzioni. Ma attenzione: per mediazione deve intendersi qualcosa di più incisivo e profondo di quel che lascia capire il termine. Per Mortati, attraverso i partiti, i cittadini avevano la possibilità di ricevere l’educazione politica e civica, necessaria a renderli “capaci di intendere gli interessi collettivi, di formare e di esprimere una volontà unitaria”. E, quindi,  ritiene propria del partito anche lo svolgimento di una funzione pedagogica ed educativa. Una “forza politica” ha un senso se è in grado di perseguire l’interesse collettivo mediante la sintesi e la riduzione ad unità degli interessi individuali.

Nei suoi reiterati interventi all’Assemblea Costituente, più volte ebbe a sottolineare l’inadeguatezza  degli strumenti di democrazia liberale e degli stessi partiti politici, inidonei a “rendere la partecipazione delle masse alla cosa pubblica effettiva e consapevole”. Queste tesi – che non trovarono la dovuta attenzione nei partiti laici e di sinistra – neppure suscitarono interesse nel suo partito, la Democrazia Cristiana. 

Preoccupazione – non infondata – del Mortati  era che  una passiva e non cosciente partecipazione dei cittadini alla vita politica avrebbe potuto determinare – come, del resto, è avvenuto – la degenerazione della forma di governo parlamentare, trasformandola in forma di governo partitocratica in modo da fare identificare i partiti con le istituzioni: pericolo che – allora – ben pochi percepirono.  Fu perdente in questa battaglia il Mortati perché il sistema dei partiti, compreso il suo,  subito dopo la Resistenza e nel fervore di progetti per la ricostruzione del Paese, sentiva di essere pienamente rappresentativo dei bisogni e delle istanze della società civile.

Il crollo dei regimi totalitari, l’insufficienza e l’inadeguatezza del regime liberal-conservatore, il riconoscimento e la pratica del suffragio universale maschile e femminile, ponevano all’evidenza su nuove basi il problema   “dell’inserzione del popolo nello Stato”,  quello del rapporto tra Parlamento e Governo, quello della individuazione e definizione del potere della maggioranza, il valore e la portata pratica del “metodo democratico”, costituzionalmente sancito all’art. 49 ossia se la maggioranza poteva o meno considerarsi anche “maggioranza governante”, padrona dello Stato, autorizzata a disporre  della pubblica amministrazione.

E, in effetti, dopo il 18 aprile 1948,  la maggioranza tendeva ad identificarsi con lo Stato. Incominciò da allora a porsi il problema della Costituzione “tradita” ed inattuata in quelle parti – Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Regioni, adeguamento delle leggi alla Costituzione, ecc. – la cui attuazione avrebbe, invece, limitato il potere della maggioranza e distinto tra indirizzo politico e gestione effettiva della pubblica amministrazione, dando, così, concreta attuazione a quello Stato di diritto che avrebbe anche consentito o comunque preparato le condizioni per l’alternanza al potere.

Nelle Note introduttive a uno studio sui partiti politici (1957), il Mortati considerò più realisticamente il partito politico come portatore e propugnatore di un indirizzo politico, una opinione fra le tante “intorno al modo di soddisfare il bene comune”.  Ritornò a ribadire che il potere della maggioranza  deve essere limitato dal principio e dal “metodo democratico”, di cui all’art. 49 della Costituzione, in forza del quale  “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Secondo il Mortati, la scelta dell’indirizzo politico era riservata alla maggioranza parlamentare, ma “la grande legislazione” ossia l’approvazione di principi fondamentali dell’ordinamento pubblico, che riguardava lo Stato, non poteva essere approvata ed imposta dalla maggioranza alla minoranza. I principi ispiratori della “grande legislazione”, essendo comuni a tutti i cittadini, dovevano essere “accettati e mantenuti” da tutte le forze politiche.

La teorizzazione del “metodo democratico” e la sua pratica importanza si riferivano – come scriveva il Mortati – “all’assicurazione delle condizioni cui rimane legata l’alternanza al potere delle forze politiche”. La prassi politica era destinata a smentire tale principio sia a causa della conventio ad excludendum del partito comunista sia per deficienze di questo stesso partito e sia anche perché la stessa maggioranza non sembrava molto interessata acchè l’opposizione assumesse la funzione di stimolo “della maggioranza, di pressione su di essa – come si esprime il Mortati nel commento all’art. 1 della Costituzione –  per giungere all’attuazione di molti principi della Costituzione rimasti allo stato di mera enunciazione”. 

La “radicalità” del Mortati nel proporre la democrazia governante, ad un certo momento – per dirla con Leopoldo Elia – si scontra  con l’evoluzione in senso negativo dei partiti, i quali finchè restano un “tramite che aiuta le masse amorfe e indifferenziate a diventare popolo”, costituiscono un elemento di propulsione, di progresso e  di  rinnovamento.  Se, invece, si riducono a puro e semplice strumento di gestione del  potere, essi possono anche essere di ostacolo al dispiegarsi della democrazia.

E’ stato giustamente sottolineato che le radici del pensiero mortatiano hanno fondamenta assai lontane nel tempo. E’ vero che, nel periodo della Costituente, fu vicino ai “professorini” della sinistra democristiana e che De Gasperi soleva chiamare – come si è ricordato –  Mortati e Dossetti “i miei radicali”; che risentì dell’influenza delle idee del Mounier e del Maritain, ma questi possono essere i precedenti storico-ideologici immediati. 

Le radici ispiratrici del suo pensiero sono ancora più profonde e vanno ricercate nell’ambiente culturale famigliare, nella formazione culturale maturata nel Collegio di S. Adriano, nella sua appartenenza ad una cultura “diversa” – ma protagonista in senso progressista in non poche vicende storiche del Mezzogiorno –  che egli mai rinnegò e della quale, anzi, era orgoglioso come lo era il padre “della propria Patria Civitese”. Da tali radici – che annoveravano anche un rigoglioso movimento cattolico-democratico, oltre che radicale e democratico-repubblicano – gli deriva il senso di una città migliore, la difesa delle minoranze, la salvaguardia dei diritti della persona e del pluralismo politico-culturale e del protagonismo delle forze sociali.

Nota dell’Autore:

il presente testo è stato già pubblicato nel mio saggio “Cristo Giacobino – cultura e politica nella Calabria Arberisca (sec. XVIII-XX)”. Ed. Libreria Aurora, Corigliano Calabro, 2019) redazione@altrepagine.it

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