I giudici di primo grado hanno riconosciuto colpevoli Bruno Sposato, Francesco Cofone e Giuseppe Curino, rei d’avere fortemente condizionato, con minacce e percosse, i titolari di due imprese

MILANO – La sentenza è dello scorso 29 novembre e le motivazioni (ben 47 pagine) sono state depositate in un tempo record per la giustizia italiana, il 14 dicembre, due settimane dopo il verdetto dei giudici della Sesta sezione penale del Tribunale di Milano (presidente Paolo Guidi, a latere Mario Morra ed Alberto Carboni).

Un verdetto di condanna per 5 persone, 3 delle quali di Corigliano-Rossano.

Si tratta dei coriglianesi Bruno Sposato, di 57 anni (foto a sinistra), Francesco Cofone, di 30 (foto al centro), e Giuseppe Curino, di 46 (foto a destra); e poi di Carmelo Cilona, 57enne originario di Seminara in provincia di Reggio Calabria, e del 42enne Rosario Marcinnò originario di Ragusa.

Sposato, Cofone e Curino, come gli altri due da anni stabilitisi a Saronno in provincia di Varese, sono tutti originari delle contrade San Nico e Mandria del forno di Corigliano-Rossano:

Sposato e Curino sono cugini, mentre Cofone – al tempo dei fatti loro contestati nel processo – era il compagno della figlia di Sposato.

Erano finiti in carcere a fine luglio del 2022

Di loro ci eravamo occupati a fine luglio del 2022 (leggi QUI), quando l’intero quintetto venne arrestato dai carabinieri della Compagnia di Saronno e finì dapprima in carcere, su ordine del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, Luca Milani, dietro richiesta del sostituto procuratore della Direzione distrettuale Antimafia, Sara Ombra, assieme ad altre persone alcune delle quali gravitanti nell’orbita della famiglia ‘ndranghetista dei Gioffrè di Seminara nel Reggino, finite poi a processo nel Tribunale di Busto Arsizio unitamente a uno soltanto dei 3 coriglianesi, Giuseppe Curino, col dibattimento ch’è ancora in corso per una serie d’aste immobiliari giudiziarie che sarebbero state inquinate e truccate proprio nel Tribunale della cittadina del Varesotto.

Il terzetto coriglianese successivamente guadagnò gli arresti domiciliari e adesso è libero.

Il Tribunale di Milano

Il processo per estorsione: “caduta” l’aggravante mafiosa

Poco più d’un mese fa è dunque giunto al termine nelle aule del Tribunale milanese il dibattimento processuale nei confronti di Sposato, Cofone, Curino, Cilona e Marcinnò:

tutti finiti alla sbarra per estorsione aggravata dal metodo mafioso.

L’aggravante della mafiosità è però caduta nelle motivazioni rese dai giudici a supporto del dispositivo di condanna da essi pronunciato in aula il 29 novembre.

Per questo, il collegio penale ha inflitto loro le seguenti pene:

Bruno Sposato, 4 anni e due mesi di reclusione, 900 euro di multa e interdizione dai pubblici uffici per 5 anni, mentre il pubblico ministero Sara Ombra aveva sollecitato la pena di 10 anni e 9 mila euro di multa;

Francesco Cofone, 2 anni e quattro mesi e 500 euro di multa;

Giuseppe Curino, 2 anni e sei mesi e 600 euro di multa;

Carmelo Cilona, 2 anni e 6 mesi e 600 euro di multa;

Rosario Marcinnò, 2 anni e sei mesi e 600 euro di multa.

Per Cofone, Curino, Cilona e Marcinnò il pm Ombra aveva richiesto 8 anni di reclusione e 6 mila euro di multa ciascuno.

Tutt’e 5 sono stati condannati al pagamento delle spese processuali e a quelle di mantenimento in carcere.

È andata “di lusso” a tutti, a ben vedere, compreso Bruno Sposato, l’imputato principale che è pregiudicato e che, la mattina del blitz di fine luglio 2022 effettuato dai carabinieri, venne trovato in possesso d’una pistola clandestina per la quale è finito nella rete giudiziaria d’un altro processo.

Tanto a Sposato quanto agli altri (loro incensurati, ma comunque noti negli ambienti investigativi), i giudici milanesi hanno infatti riconosciuto le attenuanti generiche.

I 5 imputati sono stati difesi dagli avvocati Pietro Proverbio del foro di Busto Arsizio, Annamaria Bozza del foro di Milano, Antonio Femia del foro di Roma, Francesca Cramis del foro di Busto Arsizio e Giampiero Chiodo del foro di Milano, che avevano chiesto l’assoluzione dei loro assistiti «perché il fatto non sussiste» o «perché l’imputato non l’ha commesso».

Gl’imputati, ovviamente, ricorreranno in appello contro la sentenza di primo grado.

Il fratello di Sposato fu fatto sparire dalla ‘ndrangheta a Corigliano nel 2019

Bruno Sposato è il fratello di Cosimo Rosolino Sposato, un presunto ‘ndranghetista coriglianese, incensurato ma noto negli ambienti investigativi locali, che, secondo i magistrati della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro, il 1° luglio del 2019 fu “eliminato” e il suo corpo fatto sparire con la collaudata tecnica della “lupara bianca” (leggi QUI).

Il racket del cemento e i “nuovi padroni” della cava di Limbiate

A seguito di un’interdittiva antimafia emessa dal prefetto di Varese il 31 gennaio del 2015 a carico della ditta di lavori pubblici e privati facente capo a Bruno Sposato (provvedimento in seguito annullato dal Tribunale amministrativo regionale), a giugno di quell’anno fu il “genero” Cofone ad aprire una ditta individuale, con la stessa ragione sociale di quella del “suocero”. Da quel momento il titolare formalmente era stato lui, ma di fatto sempre il “suocero” che aveva una piccola rete di fidatissimi tra i quali il cugino Curino, che “utilizzava” per qualsiasi tipo di ‘mmasciata proprio come faceva con Cofone, che in realtà era un suo dipendente.

Da anni, secondo i giudici di primo grado, la ditta “Sposato-Cofone” s’era infiltrata nella cava di materiale inerte di Limbiate, in Brianza, gestita da una famiglia d’imprenditori, la famiglia Ferrari titolare dell’impresa “Cava e Calcestruzzi Limbiatesi Snc”, che man mano ne era diventata vittima tanto che Sposato e Cofone usavano l’area aziendale come “parcheggio” esclusivo per i loro mezzi meccanici da lavoro. Acquisendo, con intimidazioni ed aggressioni verbali e fisiche, il monopolio delle commesse di trasporto e getto di calcestruzzo in giro per i cantieri di Saronno, Cislago, Gerenzano e di mezza Lombardia.

E per anni, secondo gli stessi giudici, Sposato, Cofone, e i loro complici avevano acquisito appalti a scapito soprattutto d’un concorrente nel settore ben più attrezzato ed esperto di loro, Giovanni Di Maggio, titolare della “B.D.M. sas”

Il ritenuto “meccanismo” criminale funzionava così:

i Ferrari raccoglievano le richieste di pompaggio e di getto di calcestruzzo e trattavano direttamente coi clienti il tipo di materiale da utilizzare, le condizioni di pagamento e i tempi di realizzazione.

Sempre la famiglia titolare della cava eseguiva coi propri dipendenti i getti che non necessitavano d’autopompa e assegnavano ai sub-appaltatori l’esecuzione degli altri getti. Ed era proprio in questo passaggio che s’inserivano Sposato, Cofone, Curino e il resto della “compagnia”. Che obbligava con intimidazioni i titolari della cava ad assegnare sistematicamente getti di calcestruzzo alla ditta intestata a Cofone. Che così arrivò a un monopolio pari al 98% delle commesse.

Ad avere la peggio, tra le altre ditte concorrenti, persino un’impresa d’altissimo livello che aveva eseguito lavori anche per la costruzione della linea metropolitana “M4” di Milano:

«Attento che non ti salta per aria quella betonpompa là, che prende fuoco… ti brucia la pompa e l’impianto…», si legge nella trascrizione d’una intercettazione telefonica.

Le indagini “sul campo” – corroborate proprio da numerosissime intercettazioni telefoniche ed ambientali – erano state condotte a partire dalla metà di settembre del 2017 dai carabinieri della Compagnia di Saronno, ed erano scattate a seguito dell’incendio doloso (i cui responsabili non sono mai stati identificati) di ben 6 automezzi di proprietà del Comune di Saronno avvenuto la notte del 13 settembre di quell’anno.

In un’altra intercettazione, rivolgendosi ad un parente del gestore della cava, Sposato diceva:

«Sennò che devo fare? Lo devo prendere a calci nel culo? Ma veramente! Lasciarlo morto in cava, che devo fare?».

E le mani addosso poi vennero messe per davvero all’imprenditore Di Maggio, da Sposato, il 17 gennaio del 2019, mentre il “genero” Cofone che era con lui minacciava la stessa vittima: «Ti spacco la faccia!».

Curino, l’altro calabrese e il siciliano, secondo quanto accertato dai giudici, hanno incontrato le vittime minacciandole e avvertendole di possibili conseguenze negative da parte dei “nuovi padroni” della cava.

Curino, inoltre, assieme al siciliano, in più occasioni, servendosi d’uno strumento elettronico, aveva cercato di “bonificare” le autovetture in uso agl’imputati da eventuali microspie che potevano esservi state installate dalle forze dell’ordine, come ha rivelato nel corso del processo il luogotenente del Nucleo investigativo dei carabinieri di Saronno con alla mano le relazioni di servizio dell’Arma che con militari in borghese li spiava fisicamente, palesando che in un’occasione i due imputati le “cimici” le avevano trovate! direttore@altrepagine.it

Di FABIO BUONOFIGLIO

Classe 1974. Spirito libero, animo inquieto e ribelle. Giornalista. Negli ultimi 25 anni collaboratore e redattore di diverse testate quotidiane e periodiche regionali nel Lazio e nella sua Calabria. Nel 2011 fonda AltrePagine, la propria creatura giornalistica che da allora dirige con grande passione.

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